InformaNEURO AMACHE 2

NEURO AMACHE 2

SEGUE LA SECONDA PARTE :

disturbo dello spettro fetale alcolico noto come FASD (FASD=

Fetal Alcohol Spectrum Disorders). Esso comprende affezioni che

influenzano l’apprendimento ed il comportamento. Sono anche

potenziali cause di anomalie fisiche (McQuire et al., 2019). Il circuito

di Papez (pag. 25) è sede di lesione nella sindrome di Wernicke-

Korsakoff dei pazienti alcolisti cronici. È questa una malattia

degenerativa del SNC legata a carenza di tiamina (vitamina B1) e

caratterizzata da stato confuzionale-psicotico con confabulazione,

disfunzioni della memoria, demenza.

Droghe e cervello

Il meccanismo cerebrale del piacere e della ricompensa può essere

attivato da stimoli naturali, ma anche dal consumo di sostanze

(lecite e illecite) o da dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo,

internet, videogiochi, etc.). Nell’attivare questo meccanismo le

droghe hanno una forza maggiore e persistente che comporta

l’attivazione di segnali in grado di provocare immediati rilasci di

dopamina in alta concentrazione. Esse causano una forte attivazione

del circuito limbico ed una riduzione del controllo inibitorio

corticale. Il rilascio di dopamina è seguito dalla produzione di

ormoni quali le endorfine che inducono intensa gratificazione. A

lungo andare può instaurarsi un meccanismo di dipendenza per

il quale si ha un aumento del consumo della sostanza, il suo uso

continuativo e la ripetizione dell’attività che induce piacere. La

dipendenza deriva da una disfunzione cronica del sistema cerebrale

che regola gratificazione, motivazione e memoria. L’astinenza

dall’uso causa alterazioni del comportamento e la comparsa di

una sintomatologia più o meno importante. A lungo andare le

droghe interferiscono con l’attività dei neurotrasmettitori cerebrali

ed alterano le funzioni del cervello. Vengono compromesse non

solo la sfera emozionale ed i comportamenti ma anche la memoria.

Le droghe possono causare amnesia temporanea, o addirittura

permanente, quando assunte in grandi quantità e per un tempo

prolungato. I danni diventano evidenti a livello della corteccia pre-

frontale, nell’ippocampo e nella amigdala cioè nelle aree cerebrali

dalle quali dipende la qualità della vita. 43

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Gli psicobiotici

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Il declino cognitivo rappresenta una delle conseguenze comuni ed

indesiderabili dell’invecchiamento. Negli ultimi anni un crescente

numero di studi ha indagato l’impatto della nutrizione sulla

memoria. L’ attenzione degli studiosi si è concentrata sulla dieta

antinfiammatoria ed in modo particolare sulla dieta mediterranea

ed i suoi componenti di cui il principale è l’olio extravergine di oliva

(e.v.o.). Sembra che il suo consumo sia collegato ad una migliore

memoria visiva, a fluidità verbale e alla diminuzione del rischio di

sviluppare demenza senile e malattia di Alzheimer. L’ olio e.v.o. ha

infatti proprietà antiossidanti e antinfiammatorie ben documentate.

I benefici sulla salute del cervello e del cuore sono da attribuire alla

presenza di alti livelli di acidi grassi monoinsaturi, vitamina E ed a

composti fenolici quali l’oleouropeina e l’idrossitirosolo che hanno

un elevato potere antiossidante ed antinfiammatorio. Scienziati

italiani hanno scoperto che dopo 30 giorni di somministrazione

di idrossitirosolo in animali da laboratorio (topi), adulti e anziani,

aumenta la produzione di nuovi neuroni per stimolazione alla

proliferazione delle cellule staminali progenitrici. Questo effetto

si è dimostrato addirittura più evidente negli animali anziani.

L’idrossitirosolo è quindi in grado di contrastare il declino della

neurogenesi che si verifica con l’invecchiamento. Il composto ha

anche la capacità di aumentare la produzione di nuovi neuroni e ha

un’ attività stimolante la proliferazione di cellule staminali da cui

vengono generate le cellule nervose. (Il giro dentato dell’ippocampo

è una delle due aree cerebrali che generano nuovi neuroni e gioca un

ruolo fondamentale nei processi di apprendimento e nella codifica

della memoria). L’ effetto neuroprotettivo potrebbe anche essere

collegato ad un aumento dell’adenosina trifosfato che rappresenta

la principale fonte di energia nelle cellule e dalla modulazione

dell’attività sinaptica e della plasticità cerebrale (Lauretti et al., 2020,

2021). Il semplice consumo di olio e.v.o. non è tuttavia sufficiente

per ottenere effetti benefici per la salute. Esso deve essere inserito

in un programma completo che si rifà allo stile di vita ed al regime

alimentare antinfiammatorio della dieta mediterranea. Effetti

salutari per il cervello si hanno anche con un maggiore consumo

di acidi grassi polinsaturi (PUFA) omega-3 per i loro effetti

favorevoli sulle funzioni corticali. Sono comunque necessari

ulteriori studi per valutare se l’incremento di PUFA possa

prevenire e/o attenuare modificazioni neuropatologiche del

cervello (McNamara et al., 2018). Il DHA (acido docosaesaenoico)

ha importanza per lo sviluppo e la funzione cerebrale. Esso è

infatti un componente delle membrane cellulari e favorisce

la comunicazione fra i neuroni. Pare inoltre aumentare

i livelli del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF=Brain

Derived Neurotrophic Factor) che è in grado di favorire la

crescita e la sopravvivenza dei neuroni. DHA inoltre riduce

l’infiammazione cronica che è dannosa per il tessuto cerebrale.

Secondo lo psichiatra Michael A. Crawford dell’Imperial College

di Londra, il DHA di origine marina è stato determinante per la

evoluzione cerebrale dei mammiferi ma in particolare degli esseri

umani. Ed oggi si ha la conferma del legame fra regime dietetico e

benessere mentale e cognitivo tanto che la corretta alimentazione

esercita sicuramente un’ azione preventiva sui disturbi mentali

di basso grado. Felice Jacka, studiosa di psichiatria nutrizionale,

del Food & Mood Centre alla Deakin University e all’Università

di Melbourne, sostiene come sia necessario far leva sul modello

alimentare per migliorare le condizioni mentali dei pazienti tanto

che programmi basati su una nutrizione salutare saranno sempre

più rilevanti nelle cure psichiatriche, nella depressione e nella

demenza. La ricercatrice è stata tra i primi studiosi a dimostrare

l’associazione fra le diete di stile occidentale di tipo infiammatorio

e stati ansioso-depressivi. Nel 2015 ha scoperto che soggetti di

età avanzata che avevano seguito una dieta di tipo occidentale

per quattro anni soffrivano di disturbi dell’umore e mostravano

nelle scansioni di Risonanza magnetica un volume molto ridotto

nell’ippocampo sinistro che sappiamo presiedere ai processi di

apprendimento e memorizzazione. Una particolare attenzione

deve essere rivolta a ridurre l’infiammazione gastrointestinale

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in quanto può causare l’esaurimento delle riserve di serotonina,

trasmettitore legato alla depressione e ad altri disturbi psichiatrici. La

serotonina viene infatti prodotta per circa il 90% nello stomaco dalla

interazione fra alcuni microbi e le cellule di rivestimento del tratto

gastrointestinale. Gli effetti di natura infiammatoria trasformano il

triptofano, precursore metabolico della serotonina, in un composto

in grado di generare metaboliti neurotossici che sono collegati alla

depressione, alla schizofrenia ed al morbo di Alzheimer. Uno dei

cardini della dieta mediterranea è il consumo ad ogni pasto di

una porzione equilibrata di macronutrienti: carboidrati complessi,

grassi buoni, proteine in prevalenza vegetali (verdure e legumi),

o provenienti da carni magre, un moderato consumo di prodotti

caseari, frutta fresca di stagione variando il colore, ed infine un

moderato consumo di vino rosso per la presenza di resveratrolo,

polifenolo che migliora la funzionalità dei mitocondri e accelera la

neurogenesi (è noto che le disfunzioni dei mitocondri compromettono

lo sviluppo del sistema nervoso e sono potenzialmente coinvolte nella

patogenesi di disturbi dello sviluppo neurologico). Anche epigallo-

catechina -3-gallato (EGCG) del tè verde ha azione neuroprotettiva

probabilmente con lo stesso meccanismo (Valenti et al., 2016). Nella

popolazione anziana la dieta mediterranea integrata con olio di

oliva e noci è associata ad una migliore funzione cognitiva dovuta

ad attività antiossidante e antinfiammatoria, al miglioramento

del flusso sanguigno cerebrovascolare, a modulazione dei segnali

neuronali, alla sintesi di fattori neurotrofici ed a stimolazione della

neurogenesi (Valls-Pedret et al., 2015). Uno studio condotto su oltre

15.000 persone sane di nazionalità spagnola pubblicato su BioMed

Central Medicine ha evidenziato che i soggetti che seguivano un

regime alimentare basato sulla dieta mediterranea presentavano

una riduzione del 30% del rischio di sviluppare depressione a

dimostrazione che modelli alimentari di questo tipo sono in

grado di proteggere la salute mentale e fisica (Sánchez-Villegas et

al.,2015) ma anche manifestazioni di depressione ricorrente come

riportato dagli stessi autori in una ricerca pubblicata sulla rivista

BMC Psychiatry (Sánchez-Villegas et al., 2019).

Nel 2015 neuroscienziati francesi, utilizzando tecniche di analisi

in neuroimaging ad alta sensibilità, hanno scoperto che la dieta

mediterranea può rafforzare le connessioni neurali del cervello e

rallentare il declino cognitivo nel morbo di Alzheimer (Pelletier

et al., 2015). Numerosi altri lavori confermano che la dieta

mediterranea è un regime alimentare idoneo alla salute neurologica

e mentale. Quando è integrata con olio di oliva e noci (30 g/die)

può contrastare il declino cognitivo legato all’età (Valls-Pedret et al.,

2015). Il consumo di olio e.v.o. si associa ad un miglioramento della

memoria di lavoro, della memoria spaziale e di apprendimento,

delle attività sinaptiche dell’ippocampo, della plasticità cerebrale a

breve termine ed a riduzione di taupatie in animali da esperimento

(Lauretti et al., 2020). Questo regime dietetico è stato associato ad

una ridotta incidenza di demenza da morbo di Alzheimer rispetto

ad una dieta di tipo occidentale ricca di grassi saturi, idrogenati

trans e di cibi spazzatura (Romagnolo e Selmin, 2017). Esiste anche

una buona correlazione fra dieta mediterranea e longevità in

quanto che essa è in grado di influire positivamente sulla lunghezza

dei telomeri: sono questi piccole porzioni di DNA che si trovano

alla fine di ogni cromosoma ed hanno il compito di impedire la

degradazione progressiva dei cromosomi.

L’integrazione con spezie quali la Curcuma longa con i suoi

composti attivi (Curcuminoidi) ha effetti salutari per il cervello.

Il curcumin grazie alla sua natura lipofilica è in grado di superare

la barriera ematoencefalica e di legare la proteina Beta-amiloide

che si accumula negli spazi extracellulari nei pazienti con morbo

di Alzheimer (Rubagotti et al., 2016). Curcumin sembra esercitare

effetti favorevoli nei disordini depressivi che sono caratterizzati

dall’elevazione di citochine pro-infiammatorie. La spezia è in grado

di ridurre TNF-alfa, IL-6, IL-1 beta nell’ippocampo e nella corteccia

pre-frontale e di influenzare i livelli di norepinefrina, serotonina e

dopamina nella corteccia frontale, ippocampo e nel nucleo striato

in modelli animali. Inoltre ha azione anti-glutammato e si associa

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ad incremento di BDNF. Da notare che il glutammato presenta

valori elevati nel plasma, nel liquido cerebrospinale e nel cervello

di pazienti con depressione (Ramaholimihaso et al, 2020; Zhang Y

et al., 2020).

In conclusione esistono oggi comprovate evidenze di uno stretto

legame fra regime dietetico e salute mentale e dell’importanza

dell’adozione della dieta mediterranea tradizionale per una azione

preventiva. Quest’ultima non comprende solo patologie cerebrali ma

anche malattie infiammatorie croniche, cardiovascolari e tumorali.

Numerosi studi dimostrano l’importanza dell’infiammazione

in una serie di disturbi cerebrali quali la depressione, il disturbo

bipolare fino all’autismo, la schizofrenia, il morbo di Alzheimer.

Due metanalisi condotte fra il 2010 ed il 2012 hanno documentato,

in pazienti affetti da depressione, la presenza di markers elevati

di infiammazione. Inoltre in pazienti con disturbi psichiatrici, fra

cui la depressione e la schizofrenia, è stata dimostrata un’ attività

più intensa o alterata di cellule della microglia che svolgono una

funzione chiave nella reazione infiammatoria cerebrale (Bret Stetka,

2017).

Uno studio osservazionale condotto da un gruppo di riceratori

cinesi su persone di età pari o superiore agli 80 anni, pubblicato

sulla rivista Plos Medicine, ha dimostrato che uno stile di vita sano

è associato ad un minor rischio di deterioramento cognitivo. E ciò

si verifica anche in presenza di apolipoproteina E che rappresenta il

fattore di rischio genetico più importante nel morbo di Alzheimer

la cui presenza indica un più basso tasso di clearance di amiloide

beta (Jin et al., 2021).

Una diminuzione del rischio del morbo di Alzheimer e della

sua progressione si può avere migliorando i fattori ambientali

e lo stile di vita (alimentazione equilibrata antinfiammatoria e

attività fisica) ed utilizzando esercizi di stimolazione mentale.

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migliora la funzione cardiovascolare, mentale e neurologica.

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l’avanzare dell’ età si riduce l’assorbimento di questa vitamina ed è quindi

necessaria la sua integrazione.

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sponsabili dell’invecchiamento.

Cibi ricchi di magnesio: cereali integrali (avena, miglio), pseudocereali

(quinoa, grano saraceno), legumi (fagioli cannellini, ceci), ortaggi a foglia

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alla sintesi proteica. È

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 (pane, pasta, riso bianco, patate bianche) determinano un

rapido aumento della glicemia e dell’insulina con effetti infiammatori, dannosi per

i neuroni e per l’organismo. Sono causa di diabete e di malattie metaboliche che

possono compromettere la salute cerebrale. Il cervello tuttavia ha assolutamente

bisogno di glucosio per non incorrere in un deficit funzionale. Occorre quindi

consumare carboidrati complessi che si trovano negli alimenti vegetali, nel pane e

pasta integrali da cui le molecole di zucchero vengono rilasciate lentamente senza

causare picchi glicemici.

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,,,,,,,: devono essere consumate con moderazione carne magra


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proteico il triptofano guadagna l’ingresso nel cervello favorendo la formazione di

serotonina. Nelle diete ad alto contenuto proteico, al contrario, si ha l’ingresso nel


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Gli Psicobiotici

L’asse intestino-cervello-microbiota intestinale è un sistema di

comunicazione bidirezionale che consente ai microbi intestinali di

interagire con il cervello e quest’ultimo con l’intestino attraverso

il nervo vago. Batteri intestinali sono in grado di influenzare il

comportamento umano tanto che alterazioni del microbiota sono

associati a sintomi di depressione e di ansia. Corrispondentemente

batteri appartenenti alla famiglia dei Lattobacilli, Streptococchi,

Bifidobatteri, Escherichia ed Enterococchi sono psicobiotici cioè una

classe speciale di probiotici che esercitano effetti benefici per la salute

mentale. Essi differiscono dai probiotici convenzionali in quanto in

grado di produrre o stimolare la produzione di neurotrasmettitori,

acidi grassi a catena corta, ormoni enteroendocrini, citochine

antinfiammatorie.

Gli psicobiotici possono rappresentare una possibile opzione

terapeutica nei disturbi neurologici e nelle affezioni di tipo

neurodegenerativo (Sharma, 2021).

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L’ attività fisica quando è esercitata in modo regolare,

individualmente o come sport di gruppo, e per un tempo

soddisfacente, presenta numerosi effetti favorevoli per l’organismo

ed anche per la salute mentale: migliora l’umore, le funzioni

cognitive, l’attenzione, la memoria, la qualità del sonno e induce

un senso di benessere generale (Tabella). Contrasta anche la

sindrome depressiva in pazienti con malattie neurodegenerative

come il morbo di Alzheimer ed il morbo di Parkinson (Sablonniere,

2018). L’ ippocampo, ed in particolare il giro dentato, è l’area del

cervello che è più interessata dagli effetti favorevoli dell’ esercizio

fisico. Studi sull’uomo hanno dimostrato un aumento del

volume e della funzionalità nell’ippocampo di soggetti anziani e

corrispondentemente il miglioramento della memoria. Le capacità

di attenzione ed apprendimento migliorano subito dopo attività

fisica. Sebbene i meccanismi responsabili degli effetti salutari

non siano ancora del tutto chiariti sembra siano coinvolti almeno

tre principali fattori: a)l’ aumento del flusso sanguigno a livello

cerebrale che porta ossigeno e nutrienti al cervello per sostenere le

sue funzioni e fa aumentare la crescita di cellule neurali, astrociti

che supportano i neuroni nelle loro attività specializzate; b) la

produzione di neurotrofine (leucotrofine) a livello cerebrale e

muscolare; c)il rilascio di miochine dalla muscolatura scheletrica

che esercitano un’ azione favorevole sul cervello.

Una regolare attività fisica induce una maggior densità di piccoli

vasi sanguigni e di connessioni a livello cerebrale: la risonanza

magnetica mette in evidenza un aumento del flusso ematico nel

lobo frontale ed un aumento dello spessore della corteccia frontale

e del volume dell’ippocampo. L’ apprendimento delle lingue e i

test di intelligenza sono migliori nei bambini che praticano sport.

Gli anziani attivi presentano una migliore velocità di ragionamento

ed una maggiore resistenza al declino cerebrale legato all’ età.

Molti degli effetti sono dovuti all’attivazione di recettori per il

glutammato (neurotrasmettitore della memoria). Le azioni

favorevoli sono in parte dovute alla miochina Irisina. Il nome di

questa proteina deriva da Iris, divinità greca messaggera degli

dei, per il suo ruolo di messaggero chimico nel cervello. Questa

miochina, scoperta nel 2012 da Bruce M. Spiegelman della Harvard

Medical School, è prodotta dai muscoli striati durante gli esercizi

fisici di resistenza (Bostrom et al., 2012; Jedrychowski et al., 2015).

Essa è in grado di stimolare il cervello ed in modo particolare

l’area dell’ippocampo che è coinvolta nell’apprendimento e nella

memoria, tanto da migliorare i disturbi cognitivi e far prospettare

il possibile utilizzo di questa miochina nella neuroinfiammazione

e nelle malattie neurodegenerative (Pignataro et al., 2021). La

sostanza esercita anche il ruolo di regolatore in varie attività

metaboliche quali il metabolismo del glucosio, dei lipidi, il

metabolismo osseo e l’ osteogenesi. Fra le azioni della molecola

sono note anche la conversione del grasso bianco, composto

da grandi cellule ricche di lipidi e quindi di risorse energetiche,

in grasso bruno, “buono”, caratterizzato da piccole cellule attive

da un punto di vista metabolico in grado di liberare energia ed

aumentare la temperatura corporea. Esiste una corrispondenza fra

irisina ed il fattore di crescita dei neuroni dell’Ippocampo BDNF

(Brain Derived Neurotrophic Factor). È questa una neurotrofina

presente sia nel cervello sia nelle cellule dei muscoli scheletrici:

viene secreta da cellule dell’ippocampo, cervelletto, lobo frontale

con l’aumentare dei livelli ematici di irisina ed aumenta con la

contrazione muscolare aerobica. È una proteina essenziale per

la sopravvivenza dei neuroni, regola la plasticità sinaptica con

formazione di sinapsi e produzione di ramificazioni sempre più

sviluppate, la trasmissione nervosa e la neurogenesi. Ha un ruolo

importante nei meccanismi di apprendimento e della memoria.

Secondo la studiosa K.U. Moberg (2019) l’esercizio fisico è anche

una delle modalità con cui si attiva il sistema di calma e connessione

che ha per fulcro il neurotrasmettitore ossitocina probabilmente

attivato attraverso le terminazioni nervose muscolari. Il benessere

generale, la sensazione di piacere, la diminuzione degli ormoni dello

stress, la modulazione della pressione arteriosa ed il miglioramento

55

56

a seguito di qualunque attività fisica sono dovuti probabilmente

alla produzione di ossitocina e di endorfine. Gli effetti sono più

pronunciati e duraturi se l’attività fisica viene praticata regolarmente.

La beta endorfina come tutti gli oppioidi produce assuefazione.

È questo uno dei motivi per i quali gli sport di resistenza che, per

la durata ed intensità, producono molti oppioidi endogeni sono

causa di dipendenza tanto da stimolare gli atleti ad allenarsi in

continuazione. È stata riscontrata anche un’azione salutare a carico

del microbiota intestinale con produzione di acidi grassi a catena

corta SCFA (Short Chain Fatty Acids) (Carey e Montag, 2021) quali

il butirrato. Esso esercita attività antinfiammatoria, per inibizione

del fattore di trascrizione NF-kB (Nuclear Factor-kappa B). SCFA

proteggono dalla disfunzione vascolare, dalla formazione della

placca arteriosclerotica e dalla fibrosi cardiaca (Jin et al., 2020).

Per ottenere effetti salutari occorre esercitare attività aerobica per

almeno 30 minuti al giorno per 5 giorni a settimana. La AHA

(American Heart Association) raccomanda da 150 a 300 min./

sett. di attività fisica di intensità moderata, o da 75 a 150 min./sett.

di esercizio intenso ed esercizi di resistenza almeno due volte a

settimana per sollecitare tutti i principali gruppi muscolari.

Occorre dare il tempo all’ organismo di entrare nel metabolismo

aerobico e attivare cambiamenti metabolici utili che si verificano

solo quando esso attinge al glicogeno ed ai grassi di riserva come

fonti di energia. Quando si pratica attività aerobica aumenta il

numero dei mitocondri nelle cellule muscolari nel giro di poche

settimane. Il risultato di ciò è un minore affatticamento e un minore

sforzo durante l’esercizio ed una maggiore resistenza. Ciò accade

perchè nella produzione di energia i mitocondri bruciano il grasso

in maniera più efficiente rispetto ai carboidrati. Con l’allenamento

viene rallentato il processo di invecchiamento dei mitocondri e

si verifica una maggiore produzione di energia ed efficienza fisica

non solo nei muscoli ma anche nel cervello ed in modo particolare

nell’ippocampo. In questa area la maggiore efficienza dei mitocondri

nel produrre energia influenza favorevolmente la neurogenesi.

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,,,,,,,Ͳ,,,,,,,,,,, incrementa la forza muscolare, l’equilibrio, la densità ossea e

contrasta l’osteoporosi e l’osteoartrosi

,,,,ď,,,,, riduce la massa grassa, la glicemia, i lipidi, la produzione di

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riduce la pressione arteriosa, migliora il respiro e la capacità

polmonare

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di cancro al colon

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(mammella, colon, prostata)

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la qualità del sonno, rallenta il declino cerebrale. Riduce lo

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“Il sonno è uno stato fisiologico di relativa inattività motoria,

caratterizzato da un’ elevazione della soglia di risposta alle stimolazioni

esterne. A differenza di altri stati di quiescenza e ridotta responsività,

come il coma e l’anestesia, il sonno è rapidamente reversibile ed è

regolato in maniera omeostatica” (Battaglini et al., 2020).

Ogni individuo trascorre un terzo della propria vita dormendo ed

i sogni rappresentano un elemento importante del ciclo del sonno

infatti almeno due ore di sonno notturno sono occupate dai sogni

che hanno una durata variabile da pochi minuti ad oltre 20 minuti.

L’attività onirica non è ancor oggi ben conosciuta dal punto di vista

neurofisiologico ma molti progressi sono stati fatti nello studio del

sonno con la polisonnografia. Con questo esame vengono registrati

simultaneamente EEG (elettroencefalogramma), elettromiografia,

elettrooculografia e attività respiratoria.

Le Fasi del sonno

Due sono le principali fasi del sonno:

a) la fase REM caratterizzata dalla presenza di movimenti oculari

rapidi e repentini (Rapid Eye Movements, REM) e dall’assenza quasi

completa di attività muscolare (atonia del sonno REM);

b) la fase NREM in cui i movimenti oculari sono assenti.

Il sonno NREM compare all’addormentamento. Esso é suddiviso

in tre stadi che differiscono tra loro per l’ampiezza e la frequenza

degli elementi che costituiscono il tracciato EEG.

Rispetto alla veglia, il sonno NREM è caratterizzato da una maggiore

ampiezza del segnale EEG e una minore frequenza delle onde.

Il sonno REM si registra fra i 70 ed i 90 minuti dopo

l’addormentamento e predomina prima del risveglio.

È caratterizzato da un tracciato EEG simile a quello della veglia

pur essendo il soggetto profondamente addormentato. La corteccia

motoria “è attiva come se si stessero compiendo dei movimenti

volontari in stato di veglia”. L’EEG è dominato da un’attività a

frequenza relativamente elevata e da una bassa ampiezza rispetto

al sonno NREM.

59

Ogni sessione completa di sonno comprende dalle quattro alle

cinque fasi di sonno REM. Esso ha un ruolo nel riaggiustare le

memorie immagazzinate: tutto ciò che è stato appreso durante le

ore del giorno si consolida nella memoria. La fase REM è essenziale

per lo sviluppo dei processi nervosi e la formazione di connessioni

corticali. Già al terzo trimestre di gravidanza il feto alterna cicli

di sonno a cicli di veglia e durante il sonno rielabora le sensazioni

percepite durante la veglia e sogna. Indagini ecografiche eseguite

nelle ore notturne mostrano la presenza dei movimenti oculari

caratteristici della fase REM del sonno, che sappiamo essere correlata

ai sogni (Maira, 2020). Il sonno REM ha i suoi centri regolatori

nel tronco dell’encefalo sia per la comparsa dei movimenti oculari

rapidi sia per l’insorgenza di atonia muscolare. Esso si modifica con

l’età e risulta che nel neonato occupa il maggior spazio temporale

ma con il passare degli anni si riduce a spese del sonno NREM.

Cosa accade quando ci addormentiamo

Quando ci addormentiamo ed entriamo progressivamente nel

sonno profondo le onde cerebrali rallentano e diventano ampie,

con alti picchi e profondi avvallamenti. Ciò accade perché più

cellule cerebrali entrano in fase fra loro, sincronizzano il loro

funzionamento e perdono l’ individualità. Nella fase del sonno

profondo i neuroni svolgono un’attività di riordino delle esperienze

recenti e le informazioni importanti vengono fissate nella memoria

a lungo termine a cui partecipa il circuito di Papez costituito

dall’asse corteccia cerebrale-ippocampo-talamo-corteccia.

Durante le prime fasi del sonno profondo si costruiscono nel

cervello sogni elementari, basati per lo più sulle esperienze recenti.

Questi sogni vengono rapidamente dimenticati. Poi, all’improvviso

il ritmo cerebrale accelera, la frequenza cardiaca e respiratoria

aumentano e gli occhi cominciano a muoversi rapidamente.

Si entra nel sonno REM (Rapid Eyes Movements) in cui gli occhi si

muovono senza sosta, come se seguissero immagini in movimento.

In questa fase i contenuti dei sogni diventano più complessi: sono

questi i sogni che ricordiamo al mattino. I cambiamenti delle

60

fasi del sonno si succedono più volte (quattro, sei, o anche più)

durante la notte. Ma via via che si avvicina il mattino si allungano i

periodi di sonno REM e i sogni che si ricordano diventano sempre

più complessi. Nei primi sogni della notte il cervello confronta e

integra le esperinze recenti con le conoscenze già acquisite; in tal

modo i ricordi fissati si modificano e si consolidano.

Da questo lavoro di elaborazione nascono i sogni della fase REM.

Per Freud la maggior parte della nostra vita mentale ed emotiva è

inconscia e i sogni soprattutto sono espressione di desideri inconsci.

Con i sogni i ricordi della vita passata vengono integrati con la realtà

attuale. Durante il sonno vengono riordinati e organizzati anche

aspetti cognitivi riferibili ad eventi culturali. Tutti noi sogniamo

molto durante la notte ma della maggior parte dei sogni rimane

poco al mattino in quanto vengono dimenticati quasi subito con il

risveglio, non vengono depositati nella memoria a lungo termine.

Studi di neuroimaging dimostrano che le aree del cervello che

si attivano durante il sonno sono le stesse coinvolte nei processi

di apprendimento, tanto che il cervello durante le ore di sonno

continua a lavorare e le reti neurali, al risveglio, sono modificate

rispetto a quando ci siamo addormentati.

Aree cerebrali coinvolte nel sonno

Le aree cerebrali sono rappresentate da:

a) nucleo sopraottico: ad esso arriva dalla retina un fascio nervoso

che indica la presenza o meno di luce. Quando si fa buio vengono

inviati alla ghiandola pineale (epifisi) segnali che stimolano il

rilascio in circolo di melatonina che ha un ruolo essenziale nella

fisiologia del sonno e nella regolazione del ciclo sonno-veglia.

Il suo rilascio, a sera, avviene più tardi negli adolescenti che di

conseguenza tardano ad andare a letto e faticano a svegliarsi al

mattino;

b) talamo: i talami hanno la funzione di trasmettere alle diverse

parti del cervello i segnali che provengono dagli organi di senso;

c) formazione reticolare ascendente: nel momento in cui ci si

addormenta, il talamo, in sintonia con la formazione reticolare

61

ascendente interrompe le comunicazioni con la corteccia;

d) ippocampo e amigdala: durante il sonno si attivano l’ippocampo,

sede dell’apprendimento e della memoria e in cui si formano i

ricordi, e l’amigdala, cioè l’area cerebrale deputata all’elaborazione

delle emozioni e dei comportamenti;

L’ olfatto, che è collegato con le amigdale e gli ippocampi, è l’unico

senso che rimane acceso durante il sonno.

Accanto alle aree cerebrali che vengono attivate altre sono disattivate,

tra queste, soprattutto, la corteccia prefrontale dorso-laterale che

è la sede dei processi decisionali e motivazionali che permettono

l’adattamento a situazioni nuove.

Durante le ore di sonno si verificano alcuni fenomeni:

-la corteccia prefrontale, parte del cervello che prende le decisioni,

recupera le energie e si ricarica;

-il cervello si rigenera, si ampliano le connessioni fra le cellule

cerebrali e si attivano nuove sinapsi che codificano le informazioni

acquisite durante le ore di veglia; in questo modo si consolidano i

ricordi;

-si eliminano i rifiuti, cioè i metaboliti prodotti dalla attività

cerebrale. Le cellule cerebrali nella loro attività producono

rifiuti tossici sotto forma di proteine dannose e inutili, che, se si

accumulano, si depositano in placche beta-amiloidi tra i neuroni

(la proteina beta-amiloide é quella che si riscontra in grande

quantità nei pazienti con morbo di Alzheimer) con effetti negativi

sulla funzione cerebrale. Il liquor che bagna il cervello rimuove gli

scarti indesiderati solo se dormiamo a sufficienza.

Di conseguenza la privazione di sonno diminuisce le prestazioni

cerebrali e altera la memoria.

Neurotrasmettitori/Ormoni

Il ritmo ed i meccanismi del sonno sono regolati dalla secrezione

di ormoni e neurotrasmettitori. La ghiandola pineale, al tramonto,

inizia a secernere melatonina. Il DMLO (Dim Light Melatonin

Onset), momento in cui aumentano i livelli plasmatici di questo

ormone, é un marker dosabile e affidabile del fenomeno.

62

Gli individui che privilegiano la vita notturna presentano un DMLO

posticipato. Un ruolo importante nella regolazione dell’omeostasi

del sonno è esercitato nella corteccia cerebrale dalla neurotrofina

BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor). Durante le fasi di sonno

profondo il cervello produce l’ormone della crescita che è in grado

di rigenerare le cellule che si perdono ogni giorno. I nuclei della

formazione reticolare che producono acetilcolina sono coinvolti

nella regolazione della eccitabilità generale e dei cicli sonno-veglia.

Anche il locus coeruleus, che produce noradrenalina, ed i nuclei

del rafe, che producono serotonina, sono implicati nel controllo

dei cicli sonno-veglia. I livelli di serotonina si riducono durante

il sonno. Rigurado all’adrenalina (o epinefrina) svolge un’azione

eccitatoria con effetto sul risveglio.

Nell’ipotalamo laterale sono identificati neuroni contenenti il

neuropeptide oressina (o ipocretina) che è un neuromodulatore

che regola il ritmo sonno-veglia e l’appetito. Esso é in grado

di assicurare il passaggio graduale tra stati di vigilanza. La sua

alterazione può causare narcolessia: patologia caratterizzata dalla

improvvisa comparsa di sonno REM durante le ore di veglia.

La durata del sonno

Il bisogno e la durata di sonno variano con l’età. Un neonato dorme

dalle 15 alle 18 ore al giorno con prevalenza della fase REM che é

essenziale per lo sviluppo dei processi nervosi e la formazione di

connessioni corticali. All’età di 10 anni si dorme intorno alle 11 ore.

Per un adulto sono sufficienti 7-8 ore. Gli anziani infine dormono

circa 5-6 ore a notte. La maggioranza degli adulti dovrebbe dormire

dalle 7 alle 8 ore a notte. Dormire troppo poco (meno di 5 ore)

o troppo (più di 9 ore) causa alterazioni dell’organismo. Risulta

salutare anche un pisolino post prandiale. Una siesta di 10-20 minuti

oltre ad essere assolutamente naturale migliora la produttività.

Effetti favorevoli del sonno profondo

Il sonno profondo esercita numerosi effetti favorevoli:

a)effetto antinfiammatorio e miglioramento dell’efficienza del

sistema immunitario;

63

b)attivazione nel cervello di meccanismi di pulizia che portano

alla eliminazione di metaboliti potenzialmente neurotossici (beta-

amiloide) attraverso il sistema glinfatico che funziona in prevalenza

durante le ore del sonno;

c)ristrutturazione della memoria a breve ed a lungo termine.

Il consolidamento della memoria permette di memorizzare le

informazioni e fissare le percezioni sensoriali acquisite durante il

giorno.

Effetti dovuti alla deprivazione di sonno

La deprivazione di sonno determina la diminuzione delle prestazioni

cerebrali, la compromissione della memoria e genera uno stato di

ansia. Non dormire stimola una maggior produzione di cortisolo.

Inoltre chi dorme meno di sei ore a notte produce livelli inferiori di

melatonina aumentando i rischi di ipertensione arteriosa e malattie

cardiovascolari. Nei bambini la deprivazione di sonno può scatenare

la sindrome da deficit dell’attenzione ed iperattività. Al contrario i

bambini che dormono di più hanno una soglia di attenzione più

alta e un atteggiamento più calmo, sono più in grado di imparare e

adattarsi ai cambiamenti. Ricerche epidemiologiche condotte negli

individui anziani dimostrano come sia i soggetti che dormono

poco sia i lungodormienti presentano una funzione cognitiva

peggiore ed un maggior declino cerebrale rispetto ai soggetti che

dormono 7-8 ore per notte. Una eccezione è rappresentata dagli

“short sleepers”: soggetti che dormono per un tempo molto limitato

senza che questo comporti alcun effetto negativo sulla salute.

Questi soggetti sono portatori di una mutazione del gene DEC2

che regola il ritmo sonno-veglia modulando il neurotrasmettitore

oressina che è prodotto dai neuroni dell’ipotalamo (Hirano et al.,

2018). Uno studio di Eide et al. (2021) dell’Università di Oslo

dimostra come una notte di totale privazione del sonno influisce

sulla clearance molecolare dal cervello umano. Il fenomeno è

stato osservato utilizzando la risonanza magnetica multifase dopo

somministrazione di “gadobutrolo”. È questo un marker atto a

64

valutare il trasporto di metaboliti idrosolubili, comprese le proteine

Tau e la beta-amiloide, escreti all’interno del cervello. Una notte

di privazione del sonno causa un’ alterata eliminazione del marker

dalla maggior parte delle regioni del cervello, compresa la corteccia

cerebrale, la sostanza bianca ed il sistema limbico. I risultati dello

studio condotto sul cervello umano supportano l’ipotesi che gli

spazi interstiziali aumentino durante il sonno come è già stato

dimostrato nell’animale da esperimento. Tali osservazioni possono

avere implicazioni sulla comprensione dell’impatto del sonno

disturbato nella evoluzione delle malattie neurodegenerative.

Effetti legati all’eccesso di sonno

Un eccesso abituale di sonno è in grado di causare malattie

metaboliche (obesità, diabete, etc.), cardiovascolari e depressione.

Migliorare la qualità del sonno

La qualità del sonno può essere migliorata con la sana alimentazione,

praticando attività fisica regolare, alternando il lavoro mentale

con quello fisico, mantenendo il cervello attivo con un continuo

apprendimento che stimola la formazione di nuove sinapsi,

praticando cicli di Hatha Yoga e di meditazione ed evitando

il consumo di sostanze eccitanti. Anche l’impiego notturno e

continuativo di smartphone o di schermi Tv crea stimoli psicologici

ed emotivi negativi in grado di ridurre la qualità del sonno. Nei

bambini piccoli è importante dedicare del tempo con la narrazione

di storie inventate che possano accompagnarli verso un sonno

tranquillo. Grazie ai racconti si stimola la produzione di ossitocina,

l’ormone dell’amore che imprime sicurezza.

Parole di Albert Einstein:

«Se volete che vostro figlio sia intelligente, leggetegli delle favole; se

volete che sia molto intelligente, leggetegliene di più» (Maira, 2020).

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Lorenzo Emmi

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La storia del microbiota parte da molto lontano, se pensiamo che

già Ippocrate (460-370 a.C.) aveva detto: “lasciate che il cibo sia

la vostra medicina e che la medicina sia cibo” ed ancora “tutte le

malattie hanno origine nell’intestino”. Più tardi e Ludwig Feurbach

(1804-1872) aveva sentenziato: “siamo ciò che mangiamo”.

Questo tipo di pensiero ha dominato la medicina fino alla fine

dell’ottocento, dando così un’enorme importanza al benessere

intestinale come precondizione per la salute della persona. Basti

ricordare l’abitudine dei medici, anche molto illustri, di praticare

clisteri al fine di “ripulire” l’intestino per le patologie più varie,

così come l’ampia divulgazione del concetto di intossicazione

intestinale ed epatica portata avanti da medici e pazienti per

spiegare i sintomi più eterogenei. Successivamente è iniziato ad

emergere il concetto di flora intestinale, intesa come un piccolo

ecosistema di batteri che poteva essere alterato in corso di

terapie antibiotiche protratte, onde l’uso di associare alla terapia

antibiotica una supplementazione vitaminica e più recentemente

anche una terapia a base di fermenti. Ma è soltanto a metà degli

anni novanta del secolo scorso che è stato introdotto da Jeffrey

Gordon della Washington University il termine microbiota per

riferirsi a tutte le specie microbiche che abitano un determinato

ambiente. L’interesse tardivo dei gastroenterologi, degli

immunologi e degli internisti per il microbiota si deve al fatto che

per molto tempo la flora batterica degli apparati, ed in particolare

del tratto gastroenterico, è stata esclusivamente studiata con le

tecniche di microbiologia classica che prevedono l’isolamento e la

coltura dei batteri e che pertanto riuscivano ad evidenziarne solo

un limitatissimo numero. Soltanto con l’avvento delle tecniche

di metagenomica1 si è compreso come il microbiota sia in realtà

costituito da un enorme numero di microrganismi che colonizzano

il nostro intestino e non solo. Questo ha portato all’attuale concetto

di microbiota e di qui all’interesse internazionale per questo tema.

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microrganismi.

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Questa grande avventura conoscitiva che ha condotto ad una vera

rivoluzione copernicana o per dirla con l’epistemologo americano

Thomas Kuhn ad uno slittamento di paradigma, è iniziata nel

2008 con lo “Human Microbiome Project”, promosso dal National

Institutes of Health e volto all’identificazione e caratterizzazione

di tutti i microrganismi ed al loro rapporto con lo stato di salute e

di malattia. Lo studio prevedeva la sua conclusione nel 2013, ma in

realtà si è completato soltanto nel 2016. Il progetto aveva lo scopo di

studiare cinque principali siti corporei (apparato gastrointestinale,

apparato urogenitale, cute, scalpo, cavo orale) usando le tecniche

di metagenomica. Prima di affrontare il tema del microbiota e delle

sue relazioni con il Sistema Nervoso Centrale (SNC), è necessario

fare un breve excursus sugli aspetti generali del microbiota stesso.

Microbiota e Microbioma

Per microbiota si intende tutto l’insieme dei microrganismi che

popolano il nostro corpo. Con il termine microbioma ci si riferisce

invece, oltre che all’insieme dei microrganismi, anche al complesso

dei loro geni. Infine, il termine ologenoma sta ad indicare

l’insieme dei nostri geni, nonché dei geni di tutti i microrganismi

con cui co-abitiamo. Dato che il numero dei geni microbici è circa

centocinquanta volte superiore al numero dei geni costituenti il

nostro genoma, è stato detto, in maniera un po’ provocatoria, che

siamo noi ospiti dei batteri. Il microbiota rappresenta in realtà un

ecosistema complesso, costituito da vari sottosistemi, rappresentati,

oltre che dal microbiota gastrointestinale, che è certamente il più

rilevante, sia dal punto di vista della complessità numerica, che dal

punto di vista funzionale, da quello urogenitale, cutaneo, orale,

delle prime vie aeree e del polmone profondo. Il microbiota è

costituito da batteri, funghi, parassiti, virus, batteriofagi ed infine

da batteri molto antichi definiti Archaea. La popolazione batterica

è largamente preponderante, rispetto a quella virale e dei funghi,

sia dal punto di vista numerico che funzionale. Sono noti numerosi

phyla batterici, tra i quali i principali sono i Bacteroitedes, i

69

Firmicutes, gli Actinobacteria e i Proteobacteria. Il microbiota è

costituito da un “core” che si va definendo già nella fase prenatale per

poi rappresentare un ecosistema molto complesso che raggiunge la

sua maturità intorno ai tre/quattro anni di vita. Da quel momento

in poi la struttura del microbiota di un determinato individuo

dovrebbe rimanere costante fino alla senescenza. Ciò, a patto che

lo stile di vita di quel soggetto rimanga sostanzialmente costante

e stabile per tutta la vita. A tale proposito forse l’osservazione

più rilevante dal punto di vista fisiopatologico è proprio quella

riguardante i rapporti tra microbiota e stile di vita.

Fattori che regolano la composizione del microbiota

È stato osservato che la composizione del microbiota dipende,

durante l’età gestazionale e neonatale, da numerosi fattori quali:

a) genetica individuale; b) età gestazionale; c) presenza di malattie

e/o infezioni materne; d) tipo e carico di stress, ma soprattutto

la modalità di risposta ad esso; e) ambiente in cui vive la madre

durante il periodo di gestazione; f) eventuale uso di antibiotici,

il loro dosaggio e la durata del trattamento; g) eventuale

ospedalizzazione, la sua durata e frequenza; h) tipo di parto, se

per via vaginale o mediante parto cesareo; i) tipo di allattamento,

se al seno o allattamento artificiale. D’altro canto, come abbiamo

detto il microbiota rimane costante fino alla vecchiaia, quando

si assiste ad una riduzione della biomassa, ma soprattutto della

biodiversità, nonché ad una modificazione della composizione

stessa della popolazione microbica. Durante la vita adulta il

microbiota può poi variare in base a numerosi fattori tra cui l’età,

l’attività fisica, l’uso di farmaci ed infine lo stress e l’alimentazione.

Quest’ultima è certamente il fattore più rilevante ed è in grado

da sola di “shiftare” la composizione del microbiota intestinale

in senso eubiotico o disbiotico. Ricordiamo che con il termine

eubiosi si intende una normale ed equilibrata composizione delle

varie popolazioni batteriche, mentre la disbiosi deve essere intesa

come una variazione nella composizione del microbiota con

prevalenza di specie microbiche pro-infiammatorie.

70

Sul piano strettamente fisiopatologico, l’enorme quantità di batteri

intestinali agisce in maniera dinamica e bidirezionale a livello

locale con profonde ripercussioni sistemiche, mediante vari

meccanismi: a) protezione e trofismo della mucosa intestinale;

b) produzione di vitamine essenziali per la vita (vitamina B12

e vitamina K); c) interazione e controllo dei batteri patogeni;

d) modulazione reciproca del Sistema Immunitario (SI) e sviluppo

dei meccanismi responsabili della tolleranza immunologica a

livello intestinale; e) interazione con il sistema endocrino locale

e con il sistema endocrino sistemico; f) interazione con il sistema

nervoso autonomo e con il sistema nervoso enterico; g) rapporto

tra nutrienti e microbiota; h) modulazione del nostro genoma

mediante meccanismi di tipo epigenetico microbiota-dipendenti

ed infine; i) interazione reciproca con il SNC.

Rapporti fra microbiota e SNC

I rapporti tra microbiota e SNC sono di straordinario interesse

teorico e pratico e sono riassunti nel concetto di “Gut-microbiota

brain axis”. Questo è rappresentato da una serie complessa di

interrelazioni anatomo/funzionali, che prevedono un costante

cross-talk tra sistemi complessi quali il SNC, il SI, il sistema

endocrino, il sistema nervoso autonomo e il sistema nervoso

enterico. Il fatto che tali sistemi si parlino presuppone che abbiano

una sorta di linguaggio a comune. Infatti da tempo è noto che, ad

esempio, il SI risponde ovviamente alle citochine e chemochine,

ma risponde anche a neurotrasmettitori, quali acetilcolina,

adrenalina e noradrenalina ed ormoni, quali il cortisolo, gli

estrogeni, il testosterone, la prolattina etc. Lo stesso dicasi del SNC

e del sistema endocrino. È pertanto ormai dimostrata l’esistenza di

una stretta interazione tra i tre sistemi.

Vie di comunicazione intestino/cervello

Sono rappresentate da:

1)vie anatomiche costituite dal sistema neurovegetativo simpatico

e parasimpatico;

2) asse ipotalamo-ipofisi-surrene;

71

3)asse rappresentato dal rapporto microbiota/SI;

4) asse rappresentato dai vari metaboliti prodotti dal microbiota

che comunicano ampiamente con il SNC;

5) stato di integrità della barriera intestinale e della barriera

ematoencefalica.

La prima via di comunicazione è rappresentata dall’attivazione del

sistema nervoso neurovegetativo, che in realtà costituisce una delle

vie principali di comunicazione tra sistemi biologici. Sappiamo

infatti da tempo che qualsiasi forma di stress attiva il sistema

nervoso simpatico con produzione di adrenalina e noradrenalina

(surrene) e che queste, oltre alle loro note azioni cardiovascolari,

sono anche provviste di attività pro-infiammatoria; per contro il

nervo vago è dotato di una notevole attività anti-infiammatoria.

Quest’ultima è di grande importanza ed è mediata dalla porzione

post-gangliare del vago che libera noradrenalina, in grado a

sua volta di interagire con specifici recettori beta-2 adrenergici

localizzati sulla membrana dei linfociti T. Questi ultimi, provvisti

dell’enzima colina-acetil-transferasi, producono e rilasciano

acetilcolina, che interagendo con specifici recettori alfa-7-

nicotinici per l’acetilcolina, presenti sui macrofagi, inibiscono il

rilascio di citochine pro-infiammatorie da parte di tali cellule,

quando attivate.

La seconda via di comunicazione è rappresentata dall’attivazione

dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Hypothalamic-Pituitary-

Adrenal-HPA-Axis). Come è noto da tempo l’attivazione

dell’HPA è il primo meccanismo di risposta ad uno stress, con

conseguente rilascio di CRH (Corticotropin-Release-Hormone)

da parte del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo che, agendo

sull’adenoipofisi induce la liberazione di ACTH (Adreno-Cortico

Tropic Hormone). Quest’ultimo stimola le cellule della corticale

ed in particolare la zona fascicolata della surrene a produrre

cortisolo, che insieme alla liberazione di catecolamine dalle

terminazioni simpatiche e dalla midollare surrenale, ha un ruolo

determinante nella preparazione del soggetto al “fight or flight”

72

– combatti o fuggi -. In particolare, le catecolamine inducono

aumento della frequenza cardiaca e degli atti respiratori, aumento

pressione arteriosa, rilascio di glucosio dalle riserve di glicogeno

epatico, d’altro canto l’aumento del cortisolo contribuisce

all’aumento della pressione arteriosa, dei livelli glicemici ed a

convertire gli acidi grassi in energia muscolare disponibile. Il

cortisolo determina anche una demodulazione delle risposte

immunitarie. Qualora lo stress diventi cronico, l’azione prolungata

del cortisolo può aver effetti indesiderati che possono rappresentare

un background per eventuali malattie infiammatorie, ma anche

neurodegenerative.

La terza via di comunicazione è rappresentata dal dialogo

continuo tra il SI costantemente modulato dal microbiota e il

SNC. Il concetto portante di questo dialogo è che il microbiota,

in base ai numerosi fattori che abbiamo ricordato, può essere

orientato più verso l’eubiosi o la disbiosi. Come già affermato

una definizione univoca di eubiosi e disbiosi in realtà non esiste,

tuttavia possiamo definire un microbiota eubiotico quando

questo presenta un equilibrio nell’ambito delle varie popolazioni

microbiche, al contrario si definisce disbiotico un microbiota in

cui non esiste un equilibrio tra le varie popolazioni, e ovviamente

si assiste ad una crescita esagerata di una certa popolazione a

scapito di un’altra. Inoltre è ormai abbastanza chiaro che un

microbiota disbiotico altera l’equilibrio del SI a livello intestinale.

D’ altro canto sappiamo oggi che il SI intestinale rappresenta

circa il 70% dell’intero sistema, e che a livello intestinale prevale

nettamente un ambiente tollerogenico costituito da macrofagi

prevalentemente di tipo M2 e comunque con fenotipo peculiare,

capaci di uccidere i microrganismi e al contempo di produrre

citochine anti-infiammatorie quali IL-10 (interleuchina-10) e

FGF-beta (Fibroblast Growth Factor). È stato anche osservato che

l’ espressione di TLR-4 (Toll-like-Receptor) sulla superficie dei

macrofagi e delle cellule dendritiche intestinali è ridotta. Inoltre le

cellule dendritiche dei linfonodi mesenterici e le cellule dell’epitelio

73

intestinale sono provviste di una “Retinal Dehydrogenase”,

capace di convertire la vitamina A di origine alimentare in acido

retinoico che contribuisce alle caratteristiche tollerogeniche locali.

Infine, e questo è il dato più importante, le cellule T naive della

mucosa intestinale sono prevalentemente polarizzate in senso

regolatorio (cellule T FoxP3 + o Treg), in presenza di uno stato

eubiotico ed in particolare, come vedremo successivamente, in

presenza di un’ aumentata concentrazione di butirrato.

I fattori che contribuiscono alla generazione di tali cellule sono

rappresentati dall’abbondanza di cellule dendritiche CD103+,

dalla produzione locale di acido retinoico e dalla produzione di

TGF-beta (Trasforming Growth Factor) e IL-10. In presenza di

alcune particolari popolazioni batteriche come i batteri segmentati

filamentosi, al contrario le cellule T naive tendono a polarizzarsi

in senso Th17. Questa popolazione cellulare, se particolarmente

espressa, può essere causa di infiammazione, in particolare mediante

il reclutamento di granulociti neutrofili. Tuttavia la presenza di

linfociti Th17 ha anche un ruolo protettivo, sia in quanto assicura

una potenziale difesa verso microrganismi patogeni, sia in quanto

tali celle svolgono un ruolo determinante nel mantenimento della

funzione di barriera dell’epitelio intestinale. Ciò avviene mediante

l’azione di IL-17, ma soprattutto IL-22 che sono in grado di indurre

la produzione di Rig III-gamma da parte delle cellule dell’epitelio

intestinale, molecola dotata di potente attività battericida. I batteri

commensali sono quindi dotati di numerose funzioni, tra cui la

produzione di mucine, la produzione di proteine con funzione

battericida, la fosforilazione e la riorganizzazione strutturale, TLR

mediata, della zonulina, componente fondamentale nella

composizione delle “tight junctions” o giunzioni strette.

La quarta via di comunicazione è rappresentata dall’interazione

tra metaboliti prodotti dal microbiota intestinale e SNC. Le

molecole prodotte da oltre 1500 specie batteriche son davvero

innumerevoli, tuttavia possiamo almeno distinguere tre grandi

classi: a) neurotrasmettitori; b) acidi grassi a catena corta;

74

c) derivati del metabolismo del triptofano. I neurotrasmettitori

prodotti a livello intestinale sono molto numerosi, basti ricordare

che oltre il 70% della serotonina presente nel nostro organismo è

localizzata a livello intestinale ed in particolare è prodotta dalle

cellule enterocromaffini, ma anche da Streptococcus, Escherichia,

Enterococcus e Candida. Sempre a livello intestinale vengono

prodotti numerosi altri neurotrasmettitori quali l’acido gamma-

amino-butirrico (GABA) rilasciato da Lactobacilli e Bifidobatteri,

dopamina sintetizzata dal genere Bacillus, acetilcolina prodotta

da Lattobacilli ed infine noradrenalina sintetizzata e rilasciata da

Escherichia, Saccharomyces e Bacilli. Con riferimento agli acidi

grassi a catena corta, questi vengono prodotti dalla fermentazione

saccarolitica di carboidrati complessi che sfuggono alla digestione.

I principali prodotti sono il butirrato, l’acetato ed il propionato

denominati nel loro insieme acidi grassi a catena corta (SCFA=Short

Chain Fatty Acid). Il propionato è prodotto da numerosi phyla,

tuttavia la specie Akkermansia muciniphila è stata individuata

come la principale sorgente di tale molecola. Il butirrato è invece

prevalentemente prodotto da Ruminococcus bromii, Roseburia

intestinalis e Faecalibacterium prausnitzii, nonché da vari ceppi

di Clostridium, mentre la produzione di acetato è ampiamente

diluita tra varie popolazioni batteriche. Inoltre, il butirrato, ed

in parte anche il propionato, agiscono prevalentemente a livello

locale, mentre l’acetato sfugge al filtro epatico e può entrare nel

circolo sistemico. Nel 2003 alcuni recettori considerati fino ad

allora orfani di ligando, sono stati individuati come recettori per

gli SCFA e definiti GPR43 e GPR41, poi rinominati per il loro

legame con gli SCFA, Free Fatty Acid Receptor 2 e 3 (FFAR 2/3), a

cui aggiungere il GPR 109a. Nell’ambito degli SCFA il butirrato è

sicuramente il più rilevante ed è provvisto di numerose funzioni:

a) è cruciale per il mantenimento dell’integrità della mucosa colica

e come fornitore di energia;

b) è un potente inibitore della funzione di NF-kB, molecola chiave

per l’attivazione di citochine pro-infiammatorie;

75

c) favorisce la differenziazione di cellule T naive (linfociti T non

ancora differenziati) in cellule Treg;

d) è, insieme all’acetato e contrariamente al propionato, un potente

fattore lipogenico;

e) è un inibitore della proliferazione di cellule neoplastiche;

f) è un inibitore dell’istone deacetilasi, comportandosi quindi

come un fattore cruciale nel “reprogramming” epigenetico.

In tal senso il butirrato può influenzare la trascrizione di numerosi

geni responsabili del suo effetto neurotrofico ormai ben dimostrato.

Esistono infatti numerosi lavori che hanno dimostrato il ruolo del

butirrato nel proteggere i neuroni dall’apoptosi nella malattia di

Parkinson, e nel miglioramento della funzione di apprendimento

e memorizzazione in varie forme di demenza, tra cui la malattia

di Alzheimer. Sebbene ancora non sia chiaro quale sia la quota di

SCFA che è in grado di raggiungere il SNC, diversi studi hanno

dimostrato che tutti e tre gli SCFA sono presenti a livello del liquido

cefalorachidiano. Pertanto gli SCFA attraversano la barriera

ematoencefalica ed hanno un ruolo importante nel mantenimento

della sua integrità. Numerosi studi su modelli animali hanno

dimostrato un loro ruolo nello sviluppo e nell’omeostasi cerebrale

ed un’azione sia direttamente sui neuroni che sulla microglia.

Ulteriori metaboliti sono rappresentati da molecole derivate dal

metabolismo del triptofano. In condizioni eubiotiche, il triptofano,

aminoacido esclusivamente proveniente dalla dieta (cioccolato,

avena, banane, datteri, arachidi, latte e latticini) viene trasformato

in 5-OH triptamina e quindi in serotonina e in chinurenina.

In condizioni di infiammazione (produzione di IL-1, IL-6, TNF-

alfa), si assiste all’ attivazione dell’indoleamina 2,3 deossigenasi

(IDO), che trasforma gran parte del triptofano in chinurenina

con successiva produzione di acido quinolinico, responsabile

di neurotossicità. D’altro canto le citochine proinfiammatorie

favoriscono anche la produzione di glutammato, aminoacido

responsabile del fenomeno di eccitotossicità.

76

Infine, l’ultima modalità di interplay tra intestino e SNC è

rappresentata dallo stato di integrità della mucosa intestinale

e della barriera ematoencefalica e dall’osservazione che lo stato

di integrità della prima può influenzare la permeabilità della

seconda. Infatti semplificando molto, uno stato di disbiosi è in

grado di alterare la struttura delle giunzioni strette della parete

intestinale e indurre una condizione di maggiore permeabilità

fino a quella condizione nota come “leaky gut”, ovvero di intestino

permeabile. In questa condizione, citochine pro-infiammatorie

prodotte dal SI, in risposta allo stato disbiotico, neuro-ormoni,

metaboliti batterici, derivati del triptofano, possono raggiungere la

barriera liquorale, che ad opera delle citochine pro-infiammatorie

diventa più permeabile e consente l’ulteriore passaggio di

suddette molecole. In altre parole lo stato di infiammazione locale

(intestinale), ancorchè di basso grado, può diventare sistemico e

dare luogo a quel fenomeno oggi definito neuro-infiammazione.

Quest’ultima deriva, almeno in parte, dalla flogosi generata dalla

disbiosi a livello intestinale, ma anche da uno stato di infiammazione

prodotta a livello del SNC. Quest’ultimo infatti, oltre a non

rappresentare quel “santuario” o luogo inaccessibile al SI, come

si riteneva in passato, è popolato da un’abbondante popolazione

cellulare, nota come glia, che rappresenta una sorta di SI innato

locale. Inoltre, anche le cellule del SI quali i linfociti T possono

accedere al SNC, sia attraverso il nervo vago, sia attraverso le

strutture circumventricolari quali la lamina terminalis, l’eminenza

mediana e l’area postrema. Queste zone rappresentano anche punti

di passaggio preferenziali per le citochine pro-infiammatorie.

Dobbiamo inoltre ricordare che i linfociti T sono presenti anche

a livello degli spazi meningeali. Pertanto, citochine prodotte

perifericamente, giunte a livello del SNC mediante il vago o per via

ematica, citochine e chemochine prodotte localmente dalle cellule

gliali (microglia, astrociti e oligodendrociti), linfociti di origine

meningeale e linfociti T specifici generatisi e differenziatisi a

livello intestinale e pervenuti attraverso il vago o le aree della base

77

prima descritte, vanno a costituire la cosiddetta neuro-

infiammazione. Questa costituisce la base neurobiologica, sia

di malattie infiammatorie del SNC, come la sclerosi multipla,

che di malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson

e la malattia di Alzheimer. È stato anche dimostrato che alcune

citochine possono attivare il potenziale d’azione neuronale, sono

in grado di attivare l’HPA, e possono intervenire nel controllo dei

neurotrasmettitori. Inoltre le cellule gliali sono provviste di recettori

per PAMPS (Pathogen Associated Molecular Patterns), DAMPS

(Damage Associated Molecular Patterns), che rispettivamente

riconoscono sequenze molecolari presenti sui patogeni e molecole

derivate dal danneggiamento dei tessuti, ma anche per citochine

e chemochine. Inoltre, le cellule della microglia sono finemente

regolate dalla composizione del microbiota. Infatti, ad esempio,

animali germ-free (allevati in ambiente totalmente privo di germi),

presentano profonde alterazioni strutturali della glia, quali:

a) immaturità delle cellule gliali;

b) aumento delle ramificazioni e riduzione dell’attività cellulare;

c) aumento della densità gliale, cui corrisponde sul piano clinico e

fisiopatologico, aumento dell’ ansietà, aumento della risposta allo

stress (attivazione della HPA), riduzione delle capacità di interazione

sociale, comparsa di movimenti stereotipati, ridotta capacità di

apprendimento e di memorizzazione. Negli animali germ-free si

assiste anche ad una riduzione dell’espressione di BDNF ed infine

ad una aumentata permeabilità della barriera ematoencefalica.

È stato anche osservato che animali gnotobiotici, ovvero

colonizzati soltanto con specifici tipi batterici, possono andare

incontro ad alterazioni strutturali e ultrastrutturali a livello

cerebrale, accompagnate da modificazioni comportamentali.

Inoltre è stato dimostrato che un microbiota eubiotico è in

grado di attivare gli Aril-Hydrocarbon Receptors (AHR) a

livello della microglia, con conseguente inibizione di NF-kB,

riduzione di VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) e

incremento di TGF-beta.

78

Questo porta ad una demodulazione degli astrociti cui consegue

riduzione dell’infiammazione, della neurotossicità e del

“recruitment” delle cellule immunitarie. Al contrario, un microbiota

disbiotico porta ad una interazione glia/astrocita completamente

opposta con conseguente aumento dell’infiammazione, aumento

della neurotossicità e aumento del reclutamento dei linfociti a

livello cerebrale.

In sintesi è possibile affermare che:

a) esiste un legame bidirezionale tra cervello e intestino/microbiota;

b)tale cross talk avviene mediante cinque vie ormai abbastanza

conosciute;

c)numerosi esperimenti su animali germ-free oppure su animali

gnotobiotici, hanno dimostrato in modo inequivocabile che la

deprivazione di batteri induce una grave alterazione della microglia

e predispone alla comparsa di malattie neurodegenerative;

d) il traffico dall’intestino al cervello è costituito sia da moleco-

le (neurotrasmettitori di origine batterica, neurotrasmettitori di

provenienza dalle cellule enterocromaffini, metaboliti del tripto-

fano, SCFA, citochine pro-infiammatorie, ormoni) sia da cellule;

e) lo stato di disbiosi e il conseguente aumento della permeabilità

intestinale fino allo stato di “leaky gut” favorisce il traffico

dall’intestino al cervello, oltre ad aumentare la permeabilità della

barriera ematoencefalica con conseguente loop autocrino;

f)l’arrivo di molecole e linfociti dall’intestino al cervello

favorisce la neuro-infiammazione, che, come già ricordato,

rappresenta un’alterazione responsabile, almeno in parte, della

comparsa di malattie infiammatorie e neurodegenerative;

g)gli SCFA possono interagire con specifici recettori presenti sulle

cellule entero-endocrine e stimolare la secrezione di glucagon-like

peptide 1 (GLP-1) e peptide YY (PYY), mentre la stimolazione delle

cellule beta pancreatiche porta ad un aumento della secrezione di

insulina. GLP-1 e PYY raggiungono poi l’ipotalamo, dove

interagendo con specifiche aree controllano il senso dell’appetito.

Non solo, la stimolazione consensuale da parte di numerose

79

molecole di provenienza intestinale, unitamente ai classici feed-

back neuro-endocrini e neuro-trasmettitoriali, è capace di modu-

lare molte attività emotivo-cognitive, quali l’impulsività, l’ansietà,

la depressione, la regolazione del sonno e il comportamento ali-

mentare;

h)alcuni metaboliti intestinali sono poi provvisti di una attività di

“riprogrammatori epigenetici”.

L’ esempio più noto è rappresentato dal butirrato che, interagendo

con il recettore GPR-109a, espresso sui colonociti, ma anche

sulle cellule della microglia, si comporta come un inibitore

dell’enzima istone-deacetilasi. Ricordiamo, semplificando, che

mentre la ipometilazione si associa ad un’ attivazione genica, la

deacetilazione comporta una inibizione del gene corrispondente.

D’altro canto è stata osservata da tempo una aumentata espressione

di GPR 109a nelle cellule microgliali a livello della substanzia

nigra nei pazienti con malattia di Parkinson. Inoltre il trattamento

con idrossibutirrato induce, in modelli di Parkinson in vitro

ed in vivo, un effetto antinfiammatorio mediante l’interazione

con il recettore GPR 109a e successiva demodulazione di NF-

kB. Sempre sul piano neurocognitivo, numerosi studi hanno

dimostrato effetti benefici di una dieta ad alto contenuto di fibre

sulla memoria e sulla cognizione. Ad esempio bambini con dieta

ad alto contenuto in fibre mostrano un miglior profilo cognitivo

(attività multitasking, working memory), rispetto a bambini

tenuti a dieta a basso contenuto di fibre. Forse il miglior modello

umano di correlazione tra intestino e cervello è rappresentato

dai disturbi dello spettro autistico. Infatti il 70% dei bambini con

autismo riferisce disturbi intestinali. Inoltre, il trapianto fecale

ha determinato in questi pazienti un netto, anche se transitorio,

miglioramento di tali sintomi, ma non dei disturbi della sfera

neuropsichica. Interessante l’osservazione che in questo caso,

un’ elevata concentrazione di SCFA, ed in particolare di acido

propionico, potrebbe contribuire alla comparsa di alcuni disturbi

tipici dell’autismo. In accordo con questi studi, è stato osservato

80

un aumentato rischio di autismo in bambini che assumono

valproato, farmaco anti-epilettico, che , analogamente al butirrato,

è un potente inibitore dell’istone deacetilasi.

Sinossi

In sintesi possiamo affermare che il rapporto intestino/cervello,

reso molto più complicato ed intrigante dalla comparsa di un

terzo attore, il microbiota, sta assumendo sempre maggiore

importanza per la comprensione di numerose malattie. Le più

studiate sotto questo profilo sono alcune malattie infiammatorie

quali l’artrite reumatoide e la sclerosi multipla, ma anche le

malattie cardiovascolari, quelle metaboliche, come il diabete

e l’obesità, il cancro, le malattie neurodegenerative (Parkinson

e Alzheimer), ma anche alcune patologie psichiatriche come

la depressione, l’autismo e la schizofrenia. Infine lo studio del

microbiota sta aprendo nuove ed imprevedibili prospettive per la

comprensione del fenomeno dell’invecchiamento. Infatti è stato

osservato che il microbiota con il progredire dell’età va incontro a

profonde modificazioni e che il microbiota dei centenari presenta

caratteristiche del tutto particolari. Relativamente allo specifico

rapporto intestino/microbiota/ cervello o “Gut-microbioma

brain axis”, possiamo affermare che questo si realizza secondo

vie anatomiche, neuro-ormonali e biochimiche ormai abbastanza

note. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che alterazioni di

questa interazione potrebbero contribuire alla patogenesi di molte

malattie soprattutto di quelle neuropsichiatriche. D’altro canto è

ora chiaro che lo stile di vita può avere profonde ripercussioni

sullo stato di “salute” del microbiota rendendo virtuosi tutti i

meccanismi che presiedono al “Gut-microbiota brain axis”. Appare

chiaro che uno stile di vita consapevole che includa una costante

attività fisica di tipo aerobico, un’ alimentazione equilibrata ricca

in frutta, verdure, legumi, pesce, carne bianca e povera in cibi a

base di carne rossa e zuccheri semplici e complessi, una ricerca,

per quanto possibile di una vita in ambienti verdi e con un ridotto

carico di stress, sembra essere il miglior antidoto allo sviluppo di

numerose patologie talvolta anche molto gravi.

La stimolazione

del sistema en-

terico da parte

del nervo vago

rilascia acetilco-

lina che esercita

un effetto an-

tinfiammatorio.

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L’ incremento della vita media della popolazione che si è registrato

negli ultimi 50 anni è dovuto ai notevoli progressi della scienza.

L’ aspettativa di vita ha superato di gran lunga gli 80 anni

raggiungendo gli 86,2 anni per le donne e gli 81,6 per gli uomini

(dati AUSL Toscana centro). L’ incremento dell’età media è stato

tuttavia accompagnato da un aumento delle malattie croniche in

gran parte dovute a stress ossidativo e ad infiammazione.

Sono quindi aumentate le malattie metaboliche (diabete,

sindrome metabolica, obesità), osteoarticolari, cardiovascolari,

neurodegenerative e tumorali. Gran parte di queste sono da

attribuire ad uno stile di vita disordinato ed a fattori ambientali

(esposizione a particelle inquinanti ricche di metalli). Regime

dietetico con cibi spazzatura, sedentarietà, fumo, abuso di alcol e

di sostanze illecite, inquinamento ambientale sono oggi le prime

cause dell’incremento di queste affezioni. Inoltre risulta che il 50%

della popolazione dai 65 ai 74 anni ed il 70% al di sopra dei 75 anni

è affetto da almeno due malattie croniche coesistenti che incidono

negativamente sulla qualità della vita e sui costi del sistema sanitario.

In ambito neurologico sono da considerare le malattie vascolari

ed in particolare la malattia arteriosclerotica e l’Ictus. Esso

rappresenta un’alterazione improvvisa della vascolarizzazione

cerebrale che può essere di natura ischemica, e quindi legato ad

occlusione arteriosa da crescita di una placca arteriosclerotica, o

da trombi, cioè coaguli occludenti, o da emboli provenienti da altre

parti del corpo (ad esempio in pazienti con fibrillazione atriale) o di

natura emorragica e cioè dovuto alla rottura di un vaso sanguigno

cerebrale da improvviso incremento della pressione arteriosa o da

rottura di un aneurisma endocranico (ad es. del poligono di Willis)

con improvvisa comparsa di sintomatologia neurologica di tipo

motorio-sensitivo, disturbi della parola e di tipo visivo. Se il flusso

di sangue al cervello viene interrotto si ha perdita di coscienza

in pochi secondi. Se l’ episodio ischemico è di breve durata (1-2

ore) viene definito TIA (Attacco Ischemico Transitorio). Un evento

emorragico può esordire anche in pazienti in terapia anticoagulante

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(ad es. warfarin) e può richiedere un intervento chirurgico d’urgenza.

In caso di rottura di un aneurisma l’accumulo di sangue può verificarsi

anche nello spazio subaracnoideo che è la sede del liquido

cefalorachidiano. Un’importante percentuale di patologie

neurologiche è rappresentata da malattie neurodegenerative

(morbo di Alzheimer, Parkinson, Corea di Huntington, Sclerosi

multipla, Sclerosi Laterale Amiotrofica-SLA) e dalle demenze

(m. di Alzheimer, demenza vascolare, demenza idrocefalica, etc.).

Esse rappresentano una delle maggiori cause di disabilità nella

popolazione generale e costituiscono un problema rilevante in

termini di sanità pubblica. In Europa la demenza di Alzheimer

rappresenta il 54% di tutte le demenze con una prevalenza nella

popolazione ultrasessantacinquenne del 4,4%. In Italia circa un

milione di persone soffre di demenza. Oltre il 50% sono affette

dal morbo di Alzheimer di cui il 10-15% presentano una forma

lieve della malattia. Questa patologia ha un elevato costo sociale

(il costo medio annuo per paziente è superiore a 70.000 Euro). Per

quanto riguarda i disordini di natura psichiatrica il più comune è

rappresentato dalla sindrome depressiva maggiore. La prevalenza

di questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nel sesso

femminile. Per questo tipo di patologie è necessario adottare

strategie di prevenzione primaria (stile di vita, alimentazione, cura

dell’ambiente) e secondaria (diagnosi precoce) e creare una rete

integrata di servizi sanitari e socio-assistenziali per far fronte alle

necessità dei pazienti (Di Pucchio et al., 2017; www.iss.it/demenza).

Nel 2017 l’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato che la

depressione rappresenta la principale causa di disabilità nel mondo

con oltre 300 milioni di casi. Se prendiamo in considerazione

i tumori del SNC presentano, in Europa, un’ incidenza di 5 casi

su 100.000 abitanti e sono responsabili del 2% di tutte le morti

per cancro. Negli ultimi decenni è stato registrato un aumento di

queste neoplasie che risulta più elevato nel sesso maschile. Il tumore

maligno più frequente, aggressivo e letale, è rappresentato dal

Glioblastoma che è caratterizzato da una sopravvivenza mediana

di 15 mesi dalla diagnosi. Un team di scienziati della Columbia

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