SEGUE LA SECONDA PARTE :
disturbo dello spettro fetale alcolico noto come FASD (FASD=
Fetal Alcohol Spectrum Disorders). Esso comprende affezioni che
influenzano l’apprendimento ed il comportamento. Sono anche
potenziali cause di anomalie fisiche (McQuire et al., 2019). Il circuito
di Papez (pag. 25) è sede di lesione nella sindrome di Wernicke-
Korsakoff dei pazienti alcolisti cronici. È questa una malattia
degenerativa del SNC legata a carenza di tiamina (vitamina B1) e
caratterizzata da stato confuzionale-psicotico con confabulazione,
disfunzioni della memoria, demenza.
Droghe e cervello
Il meccanismo cerebrale del piacere e della ricompensa può essere
attivato da stimoli naturali, ma anche dal consumo di sostanze
(lecite e illecite) o da dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo,
internet, videogiochi, etc.). Nell’attivare questo meccanismo le
droghe hanno una forza maggiore e persistente che comporta
l’attivazione di segnali in grado di provocare immediati rilasci di
dopamina in alta concentrazione. Esse causano una forte attivazione
del circuito limbico ed una riduzione del controllo inibitorio
corticale. Il rilascio di dopamina è seguito dalla produzione di
ormoni quali le endorfine che inducono intensa gratificazione. A
lungo andare può instaurarsi un meccanismo di dipendenza per
il quale si ha un aumento del consumo della sostanza, il suo uso
continuativo e la ripetizione dell’attività che induce piacere. La
dipendenza deriva da una disfunzione cronica del sistema cerebrale
che regola gratificazione, motivazione e memoria. L’astinenza
dall’uso causa alterazioni del comportamento e la comparsa di
una sintomatologia più o meno importante. A lungo andare le
droghe interferiscono con l’attività dei neurotrasmettitori cerebrali
ed alterano le funzioni del cervello. Vengono compromesse non
solo la sfera emozionale ed i comportamenti ma anche la memoria.
Le droghe possono causare amnesia temporanea, o addirittura
permanente, quando assunte in grandi quantità e per un tempo
prolungato. I danni diventano evidenti a livello della corteccia pre-
frontale, nell’ippocampo e nella amigdala cioè nelle aree cerebrali
dalle quali dipende la qualità della vita. 43
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Gli psicobiotici
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Il declino cognitivo rappresenta una delle conseguenze comuni ed
indesiderabili dell’invecchiamento. Negli ultimi anni un crescente
numero di studi ha indagato l’impatto della nutrizione sulla
memoria. L’ attenzione degli studiosi si è concentrata sulla dieta
antinfiammatoria ed in modo particolare sulla dieta mediterranea
ed i suoi componenti di cui il principale è l’olio extravergine di oliva
(e.v.o.). Sembra che il suo consumo sia collegato ad una migliore
memoria visiva, a fluidità verbale e alla diminuzione del rischio di
sviluppare demenza senile e malattia di Alzheimer. L’ olio e.v.o. ha
infatti proprietà antiossidanti e antinfiammatorie ben documentate.
I benefici sulla salute del cervello e del cuore sono da attribuire alla
presenza di alti livelli di acidi grassi monoinsaturi, vitamina E ed a
composti fenolici quali l’oleouropeina e l’idrossitirosolo che hanno
un elevato potere antiossidante ed antinfiammatorio. Scienziati
italiani hanno scoperto che dopo 30 giorni di somministrazione
di idrossitirosolo in animali da laboratorio (topi), adulti e anziani,
aumenta la produzione di nuovi neuroni per stimolazione alla
proliferazione delle cellule staminali progenitrici. Questo effetto
si è dimostrato addirittura più evidente negli animali anziani.
L’idrossitirosolo è quindi in grado di contrastare il declino della
neurogenesi che si verifica con l’invecchiamento. Il composto ha
anche la capacità di aumentare la produzione di nuovi neuroni e ha
un’ attività stimolante la proliferazione di cellule staminali da cui
vengono generate le cellule nervose. (Il giro dentato dell’ippocampo
è una delle due aree cerebrali che generano nuovi neuroni e gioca un
ruolo fondamentale nei processi di apprendimento e nella codifica
della memoria). L’ effetto neuroprotettivo potrebbe anche essere
collegato ad un aumento dell’adenosina trifosfato che rappresenta
la principale fonte di energia nelle cellule e dalla modulazione
dell’attività sinaptica e della plasticità cerebrale (Lauretti et al., 2020,
2021). Il semplice consumo di olio e.v.o. non è tuttavia sufficiente
per ottenere effetti benefici per la salute. Esso deve essere inserito
in un programma completo che si rifà allo stile di vita ed al regime
alimentare antinfiammatorio della dieta mediterranea. Effetti
salutari per il cervello si hanno anche con un maggiore consumo
di acidi grassi polinsaturi (PUFA) omega-3 per i loro effetti
favorevoli sulle funzioni corticali. Sono comunque necessari
ulteriori studi per valutare se l’incremento di PUFA possa
prevenire e/o attenuare modificazioni neuropatologiche del
cervello (McNamara et al., 2018). Il DHA (acido docosaesaenoico)
ha importanza per lo sviluppo e la funzione cerebrale. Esso è
infatti un componente delle membrane cellulari e favorisce
la comunicazione fra i neuroni. Pare inoltre aumentare
i livelli del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF=Brain
Derived Neurotrophic Factor) che è in grado di favorire la
crescita e la sopravvivenza dei neuroni. DHA inoltre riduce
l’infiammazione cronica che è dannosa per il tessuto cerebrale.
Secondo lo psichiatra Michael A. Crawford dell’Imperial College
di Londra, il DHA di origine marina è stato determinante per la
evoluzione cerebrale dei mammiferi ma in particolare degli esseri
umani. Ed oggi si ha la conferma del legame fra regime dietetico e
benessere mentale e cognitivo tanto che la corretta alimentazione
esercita sicuramente un’ azione preventiva sui disturbi mentali
di basso grado. Felice Jacka, studiosa di psichiatria nutrizionale,
del Food & Mood Centre alla Deakin University e all’Università
di Melbourne, sostiene come sia necessario far leva sul modello
alimentare per migliorare le condizioni mentali dei pazienti tanto
che programmi basati su una nutrizione salutare saranno sempre
più rilevanti nelle cure psichiatriche, nella depressione e nella
demenza. La ricercatrice è stata tra i primi studiosi a dimostrare
l’associazione fra le diete di stile occidentale di tipo infiammatorio
e stati ansioso-depressivi. Nel 2015 ha scoperto che soggetti di
età avanzata che avevano seguito una dieta di tipo occidentale
per quattro anni soffrivano di disturbi dell’umore e mostravano
nelle scansioni di Risonanza magnetica un volume molto ridotto
nell’ippocampo sinistro che sappiamo presiedere ai processi di
apprendimento e memorizzazione. Una particolare attenzione
deve essere rivolta a ridurre l’infiammazione gastrointestinale
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47
in quanto può causare l’esaurimento delle riserve di serotonina,
trasmettitore legato alla depressione e ad altri disturbi psichiatrici. La
serotonina viene infatti prodotta per circa il 90% nello stomaco dalla
interazione fra alcuni microbi e le cellule di rivestimento del tratto
gastrointestinale. Gli effetti di natura infiammatoria trasformano il
triptofano, precursore metabolico della serotonina, in un composto
in grado di generare metaboliti neurotossici che sono collegati alla
depressione, alla schizofrenia ed al morbo di Alzheimer. Uno dei
cardini della dieta mediterranea è il consumo ad ogni pasto di
una porzione equilibrata di macronutrienti: carboidrati complessi,
grassi buoni, proteine in prevalenza vegetali (verdure e legumi),
o provenienti da carni magre, un moderato consumo di prodotti
caseari, frutta fresca di stagione variando il colore, ed infine un
moderato consumo di vino rosso per la presenza di resveratrolo,
polifenolo che migliora la funzionalità dei mitocondri e accelera la
neurogenesi (è noto che le disfunzioni dei mitocondri compromettono
lo sviluppo del sistema nervoso e sono potenzialmente coinvolte nella
patogenesi di disturbi dello sviluppo neurologico). Anche epigallo-
catechina -3-gallato (EGCG) del tè verde ha azione neuroprotettiva
probabilmente con lo stesso meccanismo (Valenti et al., 2016). Nella
popolazione anziana la dieta mediterranea integrata con olio di
oliva e noci è associata ad una migliore funzione cognitiva dovuta
ad attività antiossidante e antinfiammatoria, al miglioramento
del flusso sanguigno cerebrovascolare, a modulazione dei segnali
neuronali, alla sintesi di fattori neurotrofici ed a stimolazione della
neurogenesi (Valls-Pedret et al., 2015). Uno studio condotto su oltre
15.000 persone sane di nazionalità spagnola pubblicato su BioMed
Central Medicine ha evidenziato che i soggetti che seguivano un
regime alimentare basato sulla dieta mediterranea presentavano
una riduzione del 30% del rischio di sviluppare depressione a
dimostrazione che modelli alimentari di questo tipo sono in
grado di proteggere la salute mentale e fisica (Sánchez-Villegas et
al.,2015) ma anche manifestazioni di depressione ricorrente come
riportato dagli stessi autori in una ricerca pubblicata sulla rivista
BMC Psychiatry (Sánchez-Villegas et al., 2019).
Nel 2015 neuroscienziati francesi, utilizzando tecniche di analisi
in neuroimaging ad alta sensibilità, hanno scoperto che la dieta
mediterranea può rafforzare le connessioni neurali del cervello e
rallentare il declino cognitivo nel morbo di Alzheimer (Pelletier
et al., 2015). Numerosi altri lavori confermano che la dieta
mediterranea è un regime alimentare idoneo alla salute neurologica
e mentale. Quando è integrata con olio di oliva e noci (30 g/die)
può contrastare il declino cognitivo legato all’età (Valls-Pedret et al.,
2015). Il consumo di olio e.v.o. si associa ad un miglioramento della
memoria di lavoro, della memoria spaziale e di apprendimento,
delle attività sinaptiche dell’ippocampo, della plasticità cerebrale a
breve termine ed a riduzione di taupatie in animali da esperimento
(Lauretti et al., 2020). Questo regime dietetico è stato associato ad
una ridotta incidenza di demenza da morbo di Alzheimer rispetto
ad una dieta di tipo occidentale ricca di grassi saturi, idrogenati
trans e di cibi spazzatura (Romagnolo e Selmin, 2017). Esiste anche
una buona correlazione fra dieta mediterranea e longevità in
quanto che essa è in grado di influire positivamente sulla lunghezza
dei telomeri: sono questi piccole porzioni di DNA che si trovano
alla fine di ogni cromosoma ed hanno il compito di impedire la
degradazione progressiva dei cromosomi.
L’integrazione con spezie quali la Curcuma longa con i suoi
composti attivi (Curcuminoidi) ha effetti salutari per il cervello.
Il curcumin grazie alla sua natura lipofilica è in grado di superare
la barriera ematoencefalica e di legare la proteina Beta-amiloide
che si accumula negli spazi extracellulari nei pazienti con morbo
di Alzheimer (Rubagotti et al., 2016). Curcumin sembra esercitare
effetti favorevoli nei disordini depressivi che sono caratterizzati
dall’elevazione di citochine pro-infiammatorie. La spezia è in grado
di ridurre TNF-alfa, IL-6, IL-1 beta nell’ippocampo e nella corteccia
pre-frontale e di influenzare i livelli di norepinefrina, serotonina e
dopamina nella corteccia frontale, ippocampo e nel nucleo striato
in modelli animali. Inoltre ha azione anti-glutammato e si associa
48
ad incremento di BDNF. Da notare che il glutammato presenta
valori elevati nel plasma, nel liquido cerebrospinale e nel cervello
di pazienti con depressione (Ramaholimihaso et al, 2020; Zhang Y
et al., 2020).
In conclusione esistono oggi comprovate evidenze di uno stretto
legame fra regime dietetico e salute mentale e dell’importanza
dell’adozione della dieta mediterranea tradizionale per una azione
preventiva. Quest’ultima non comprende solo patologie cerebrali ma
anche malattie infiammatorie croniche, cardiovascolari e tumorali.
Numerosi studi dimostrano l’importanza dell’infiammazione
in una serie di disturbi cerebrali quali la depressione, il disturbo
bipolare fino all’autismo, la schizofrenia, il morbo di Alzheimer.
Due metanalisi condotte fra il 2010 ed il 2012 hanno documentato,
in pazienti affetti da depressione, la presenza di markers elevati
di infiammazione. Inoltre in pazienti con disturbi psichiatrici, fra
cui la depressione e la schizofrenia, è stata dimostrata un’ attività
più intensa o alterata di cellule della microglia che svolgono una
funzione chiave nella reazione infiammatoria cerebrale (Bret Stetka,
2017).
Uno studio osservazionale condotto da un gruppo di riceratori
cinesi su persone di età pari o superiore agli 80 anni, pubblicato
sulla rivista Plos Medicine, ha dimostrato che uno stile di vita sano
è associato ad un minor rischio di deterioramento cognitivo. E ciò
si verifica anche in presenza di apolipoproteina E che rappresenta il
fattore di rischio genetico più importante nel morbo di Alzheimer
la cui presenza indica un più basso tasso di clearance di amiloide
beta (Jin et al., 2021).
Una diminuzione del rischio del morbo di Alzheimer e della
sua progressione si può avere migliorando i fattori ambientali
e lo stile di vita (alimentazione equilibrata antinfiammatoria e
attività fisica) ed utilizzando esercizi di stimolazione mentale.
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(pane, pasta, riso bianco, patate bianche) determinano un
rapido aumento della glicemia e dell’insulina con effetti infiammatori, dannosi per
i neuroni e per l’organismo. Sono causa di diabete e di malattie metaboliche che
possono compromettere la salute cerebrale. Il cervello tuttavia ha assolutamente
bisogno di glucosio per non incorrere in un deficit funzionale. Occorre quindi
consumare carboidrati complessi che si trovano negli alimenti vegetali, nel pane e
pasta integrali da cui le molecole di zucchero vengono rilasciate lentamente senza
causare picchi glicemici.
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proteico il triptofano guadagna l’ingresso nel cervello favorendo la formazione di
serotonina. Nelle diete ad alto contenuto proteico, al contrario, si ha l’ingresso nel
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Gli Psicobiotici
L’asse intestino-cervello-microbiota intestinale è un sistema di
comunicazione bidirezionale che consente ai microbi intestinali di
interagire con il cervello e quest’ultimo con l’intestino attraverso
il nervo vago. Batteri intestinali sono in grado di influenzare il
comportamento umano tanto che alterazioni del microbiota sono
associati a sintomi di depressione e di ansia. Corrispondentemente
batteri appartenenti alla famiglia dei Lattobacilli, Streptococchi,
Bifidobatteri, Escherichia ed Enterococchi sono psicobiotici cioè una
classe speciale di probiotici che esercitano effetti benefici per la salute
mentale. Essi differiscono dai probiotici convenzionali in quanto in
grado di produrre o stimolare la produzione di neurotrasmettitori,
acidi grassi a catena corta, ormoni enteroendocrini, citochine
antinfiammatorie.
Gli psicobiotici possono rappresentare una possibile opzione
terapeutica nei disturbi neurologici e nelle affezioni di tipo
neurodegenerativo (Sharma, 2021).
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L’ attività fisica quando è esercitata in modo regolare,
individualmente o come sport di gruppo, e per un tempo
soddisfacente, presenta numerosi effetti favorevoli per l’organismo
ed anche per la salute mentale: migliora l’umore, le funzioni
cognitive, l’attenzione, la memoria, la qualità del sonno e induce
un senso di benessere generale (Tabella). Contrasta anche la
sindrome depressiva in pazienti con malattie neurodegenerative
come il morbo di Alzheimer ed il morbo di Parkinson (Sablonniere,
2018). L’ ippocampo, ed in particolare il giro dentato, è l’area del
cervello che è più interessata dagli effetti favorevoli dell’ esercizio
fisico. Studi sull’uomo hanno dimostrato un aumento del
volume e della funzionalità nell’ippocampo di soggetti anziani e
corrispondentemente il miglioramento della memoria. Le capacità
di attenzione ed apprendimento migliorano subito dopo attività
fisica. Sebbene i meccanismi responsabili degli effetti salutari
non siano ancora del tutto chiariti sembra siano coinvolti almeno
tre principali fattori: a)l’ aumento del flusso sanguigno a livello
cerebrale che porta ossigeno e nutrienti al cervello per sostenere le
sue funzioni e fa aumentare la crescita di cellule neurali, astrociti
che supportano i neuroni nelle loro attività specializzate; b) la
produzione di neurotrofine (leucotrofine) a livello cerebrale e
muscolare; c)il rilascio di miochine dalla muscolatura scheletrica
che esercitano un’ azione favorevole sul cervello.
Una regolare attività fisica induce una maggior densità di piccoli
vasi sanguigni e di connessioni a livello cerebrale: la risonanza
magnetica mette in evidenza un aumento del flusso ematico nel
lobo frontale ed un aumento dello spessore della corteccia frontale
e del volume dell’ippocampo. L’ apprendimento delle lingue e i
test di intelligenza sono migliori nei bambini che praticano sport.
Gli anziani attivi presentano una migliore velocità di ragionamento
ed una maggiore resistenza al declino cerebrale legato all’ età.
Molti degli effetti sono dovuti all’attivazione di recettori per il
glutammato (neurotrasmettitore della memoria). Le azioni
favorevoli sono in parte dovute alla miochina Irisina. Il nome di
questa proteina deriva da Iris, divinità greca messaggera degli
dei, per il suo ruolo di messaggero chimico nel cervello. Questa
miochina, scoperta nel 2012 da Bruce M. Spiegelman della Harvard
Medical School, è prodotta dai muscoli striati durante gli esercizi
fisici di resistenza (Bostrom et al., 2012; Jedrychowski et al., 2015).
Essa è in grado di stimolare il cervello ed in modo particolare
l’area dell’ippocampo che è coinvolta nell’apprendimento e nella
memoria, tanto da migliorare i disturbi cognitivi e far prospettare
il possibile utilizzo di questa miochina nella neuroinfiammazione
e nelle malattie neurodegenerative (Pignataro et al., 2021). La
sostanza esercita anche il ruolo di regolatore in varie attività
metaboliche quali il metabolismo del glucosio, dei lipidi, il
metabolismo osseo e l’ osteogenesi. Fra le azioni della molecola
sono note anche la conversione del grasso bianco, composto
da grandi cellule ricche di lipidi e quindi di risorse energetiche,
in grasso bruno, “buono”, caratterizzato da piccole cellule attive
da un punto di vista metabolico in grado di liberare energia ed
aumentare la temperatura corporea. Esiste una corrispondenza fra
irisina ed il fattore di crescita dei neuroni dell’Ippocampo BDNF
(Brain Derived Neurotrophic Factor). È questa una neurotrofina
presente sia nel cervello sia nelle cellule dei muscoli scheletrici:
viene secreta da cellule dell’ippocampo, cervelletto, lobo frontale
con l’aumentare dei livelli ematici di irisina ed aumenta con la
contrazione muscolare aerobica. È una proteina essenziale per
la sopravvivenza dei neuroni, regola la plasticità sinaptica con
formazione di sinapsi e produzione di ramificazioni sempre più
sviluppate, la trasmissione nervosa e la neurogenesi. Ha un ruolo
importante nei meccanismi di apprendimento e della memoria.
Secondo la studiosa K.U. Moberg (2019) l’esercizio fisico è anche
una delle modalità con cui si attiva il sistema di calma e connessione
che ha per fulcro il neurotrasmettitore ossitocina probabilmente
attivato attraverso le terminazioni nervose muscolari. Il benessere
generale, la sensazione di piacere, la diminuzione degli ormoni dello
stress, la modulazione della pressione arteriosa ed il miglioramento
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56
a seguito di qualunque attività fisica sono dovuti probabilmente
alla produzione di ossitocina e di endorfine. Gli effetti sono più
pronunciati e duraturi se l’attività fisica viene praticata regolarmente.
La beta endorfina come tutti gli oppioidi produce assuefazione.
È questo uno dei motivi per i quali gli sport di resistenza che, per
la durata ed intensità, producono molti oppioidi endogeni sono
causa di dipendenza tanto da stimolare gli atleti ad allenarsi in
continuazione. È stata riscontrata anche un’azione salutare a carico
del microbiota intestinale con produzione di acidi grassi a catena
corta SCFA (Short Chain Fatty Acids) (Carey e Montag, 2021) quali
il butirrato. Esso esercita attività antinfiammatoria, per inibizione
del fattore di trascrizione NF-kB (Nuclear Factor-kappa B). SCFA
proteggono dalla disfunzione vascolare, dalla formazione della
placca arteriosclerotica e dalla fibrosi cardiaca (Jin et al., 2020).
Per ottenere effetti salutari occorre esercitare attività aerobica per
almeno 30 minuti al giorno per 5 giorni a settimana. La AHA
(American Heart Association) raccomanda da 150 a 300 min./
sett. di attività fisica di intensità moderata, o da 75 a 150 min./sett.
di esercizio intenso ed esercizi di resistenza almeno due volte a
settimana per sollecitare tutti i principali gruppi muscolari.
Occorre dare il tempo all’ organismo di entrare nel metabolismo
aerobico e attivare cambiamenti metabolici utili che si verificano
solo quando esso attinge al glicogeno ed ai grassi di riserva come
fonti di energia. Quando si pratica attività aerobica aumenta il
numero dei mitocondri nelle cellule muscolari nel giro di poche
settimane. Il risultato di ciò è un minore affatticamento e un minore
sforzo durante l’esercizio ed una maggiore resistenza. Ciò accade
perchè nella produzione di energia i mitocondri bruciano il grasso
in maniera più efficiente rispetto ai carboidrati. Con l’allenamento
viene rallentato il processo di invecchiamento dei mitocondri e
si verifica una maggiore produzione di energia ed efficienza fisica
non solo nei muscoli ma anche nel cervello ed in modo particolare
nell’ippocampo. In questa area la maggiore efficienza dei mitocondri
nel produrre energia influenza favorevolmente la neurogenesi.
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contrasta l’osteoporosi e l’osteoartrosi
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di cancro al colon
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“Il sonno è uno stato fisiologico di relativa inattività motoria,
caratterizzato da un’ elevazione della soglia di risposta alle stimolazioni
esterne. A differenza di altri stati di quiescenza e ridotta responsività,
come il coma e l’anestesia, il sonno è rapidamente reversibile ed è
regolato in maniera omeostatica” (Battaglini et al., 2020).
Ogni individuo trascorre un terzo della propria vita dormendo ed
i sogni rappresentano un elemento importante del ciclo del sonno
infatti almeno due ore di sonno notturno sono occupate dai sogni
che hanno una durata variabile da pochi minuti ad oltre 20 minuti.
L’attività onirica non è ancor oggi ben conosciuta dal punto di vista
neurofisiologico ma molti progressi sono stati fatti nello studio del
sonno con la polisonnografia. Con questo esame vengono registrati
simultaneamente EEG (elettroencefalogramma), elettromiografia,
elettrooculografia e attività respiratoria.
Le Fasi del sonno
Due sono le principali fasi del sonno:
a) la fase REM caratterizzata dalla presenza di movimenti oculari
rapidi e repentini (Rapid Eye Movements, REM) e dall’assenza quasi
completa di attività muscolare (atonia del sonno REM);
b) la fase NREM in cui i movimenti oculari sono assenti.
Il sonno NREM compare all’addormentamento. Esso é suddiviso
in tre stadi che differiscono tra loro per l’ampiezza e la frequenza
degli elementi che costituiscono il tracciato EEG.
Rispetto alla veglia, il sonno NREM è caratterizzato da una maggiore
ampiezza del segnale EEG e una minore frequenza delle onde.
Il sonno REM si registra fra i 70 ed i 90 minuti dopo
l’addormentamento e predomina prima del risveglio.
È caratterizzato da un tracciato EEG simile a quello della veglia
pur essendo il soggetto profondamente addormentato. La corteccia
motoria “è attiva come se si stessero compiendo dei movimenti
volontari in stato di veglia”. L’EEG è dominato da un’attività a
frequenza relativamente elevata e da una bassa ampiezza rispetto
al sonno NREM.
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Ogni sessione completa di sonno comprende dalle quattro alle
cinque fasi di sonno REM. Esso ha un ruolo nel riaggiustare le
memorie immagazzinate: tutto ciò che è stato appreso durante le
ore del giorno si consolida nella memoria. La fase REM è essenziale
per lo sviluppo dei processi nervosi e la formazione di connessioni
corticali. Già al terzo trimestre di gravidanza il feto alterna cicli
di sonno a cicli di veglia e durante il sonno rielabora le sensazioni
percepite durante la veglia e sogna. Indagini ecografiche eseguite
nelle ore notturne mostrano la presenza dei movimenti oculari
caratteristici della fase REM del sonno, che sappiamo essere correlata
ai sogni (Maira, 2020). Il sonno REM ha i suoi centri regolatori
nel tronco dell’encefalo sia per la comparsa dei movimenti oculari
rapidi sia per l’insorgenza di atonia muscolare. Esso si modifica con
l’età e risulta che nel neonato occupa il maggior spazio temporale
ma con il passare degli anni si riduce a spese del sonno NREM.
Cosa accade quando ci addormentiamo
Quando ci addormentiamo ed entriamo progressivamente nel
sonno profondo le onde cerebrali rallentano e diventano ampie,
con alti picchi e profondi avvallamenti. Ciò accade perché più
cellule cerebrali entrano in fase fra loro, sincronizzano il loro
funzionamento e perdono l’ individualità. Nella fase del sonno
profondo i neuroni svolgono un’attività di riordino delle esperienze
recenti e le informazioni importanti vengono fissate nella memoria
a lungo termine a cui partecipa il circuito di Papez costituito
dall’asse corteccia cerebrale-ippocampo-talamo-corteccia.
Durante le prime fasi del sonno profondo si costruiscono nel
cervello sogni elementari, basati per lo più sulle esperienze recenti.
Questi sogni vengono rapidamente dimenticati. Poi, all’improvviso
il ritmo cerebrale accelera, la frequenza cardiaca e respiratoria
aumentano e gli occhi cominciano a muoversi rapidamente.
Si entra nel sonno REM (Rapid Eyes Movements) in cui gli occhi si
muovono senza sosta, come se seguissero immagini in movimento.
In questa fase i contenuti dei sogni diventano più complessi: sono
questi i sogni che ricordiamo al mattino. I cambiamenti delle
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fasi del sonno si succedono più volte (quattro, sei, o anche più)
durante la notte. Ma via via che si avvicina il mattino si allungano i
periodi di sonno REM e i sogni che si ricordano diventano sempre
più complessi. Nei primi sogni della notte il cervello confronta e
integra le esperinze recenti con le conoscenze già acquisite; in tal
modo i ricordi fissati si modificano e si consolidano.
Da questo lavoro di elaborazione nascono i sogni della fase REM.
Per Freud la maggior parte della nostra vita mentale ed emotiva è
inconscia e i sogni soprattutto sono espressione di desideri inconsci.
Con i sogni i ricordi della vita passata vengono integrati con la realtà
attuale. Durante il sonno vengono riordinati e organizzati anche
aspetti cognitivi riferibili ad eventi culturali. Tutti noi sogniamo
molto durante la notte ma della maggior parte dei sogni rimane
poco al mattino in quanto vengono dimenticati quasi subito con il
risveglio, non vengono depositati nella memoria a lungo termine.
Studi di neuroimaging dimostrano che le aree del cervello che
si attivano durante il sonno sono le stesse coinvolte nei processi
di apprendimento, tanto che il cervello durante le ore di sonno
continua a lavorare e le reti neurali, al risveglio, sono modificate
rispetto a quando ci siamo addormentati.
Aree cerebrali coinvolte nel sonno
Le aree cerebrali sono rappresentate da:
a) nucleo sopraottico: ad esso arriva dalla retina un fascio nervoso
che indica la presenza o meno di luce. Quando si fa buio vengono
inviati alla ghiandola pineale (epifisi) segnali che stimolano il
rilascio in circolo di melatonina che ha un ruolo essenziale nella
fisiologia del sonno e nella regolazione del ciclo sonno-veglia.
Il suo rilascio, a sera, avviene più tardi negli adolescenti che di
conseguenza tardano ad andare a letto e faticano a svegliarsi al
mattino;
b) talamo: i talami hanno la funzione di trasmettere alle diverse
parti del cervello i segnali che provengono dagli organi di senso;
c) formazione reticolare ascendente: nel momento in cui ci si
addormenta, il talamo, in sintonia con la formazione reticolare
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ascendente interrompe le comunicazioni con la corteccia;
d) ippocampo e amigdala: durante il sonno si attivano l’ippocampo,
sede dell’apprendimento e della memoria e in cui si formano i
ricordi, e l’amigdala, cioè l’area cerebrale deputata all’elaborazione
delle emozioni e dei comportamenti;
L’ olfatto, che è collegato con le amigdale e gli ippocampi, è l’unico
senso che rimane acceso durante il sonno.
Accanto alle aree cerebrali che vengono attivate altre sono disattivate,
tra queste, soprattutto, la corteccia prefrontale dorso-laterale che
è la sede dei processi decisionali e motivazionali che permettono
l’adattamento a situazioni nuove.
Durante le ore di sonno si verificano alcuni fenomeni:
-la corteccia prefrontale, parte del cervello che prende le decisioni,
recupera le energie e si ricarica;
-il cervello si rigenera, si ampliano le connessioni fra le cellule
cerebrali e si attivano nuove sinapsi che codificano le informazioni
acquisite durante le ore di veglia; in questo modo si consolidano i
ricordi;
-si eliminano i rifiuti, cioè i metaboliti prodotti dalla attività
cerebrale. Le cellule cerebrali nella loro attività producono
rifiuti tossici sotto forma di proteine dannose e inutili, che, se si
accumulano, si depositano in placche beta-amiloidi tra i neuroni
(la proteina beta-amiloide é quella che si riscontra in grande
quantità nei pazienti con morbo di Alzheimer) con effetti negativi
sulla funzione cerebrale. Il liquor che bagna il cervello rimuove gli
scarti indesiderati solo se dormiamo a sufficienza.
Di conseguenza la privazione di sonno diminuisce le prestazioni
cerebrali e altera la memoria.
Neurotrasmettitori/Ormoni
Il ritmo ed i meccanismi del sonno sono regolati dalla secrezione
di ormoni e neurotrasmettitori. La ghiandola pineale, al tramonto,
inizia a secernere melatonina. Il DMLO (Dim Light Melatonin
Onset), momento in cui aumentano i livelli plasmatici di questo
ormone, é un marker dosabile e affidabile del fenomeno.
62
Gli individui che privilegiano la vita notturna presentano un DMLO
posticipato. Un ruolo importante nella regolazione dell’omeostasi
del sonno è esercitato nella corteccia cerebrale dalla neurotrofina
BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor). Durante le fasi di sonno
profondo il cervello produce l’ormone della crescita che è in grado
di rigenerare le cellule che si perdono ogni giorno. I nuclei della
formazione reticolare che producono acetilcolina sono coinvolti
nella regolazione della eccitabilità generale e dei cicli sonno-veglia.
Anche il locus coeruleus, che produce noradrenalina, ed i nuclei
del rafe, che producono serotonina, sono implicati nel controllo
dei cicli sonno-veglia. I livelli di serotonina si riducono durante
il sonno. Rigurado all’adrenalina (o epinefrina) svolge un’azione
eccitatoria con effetto sul risveglio.
Nell’ipotalamo laterale sono identificati neuroni contenenti il
neuropeptide oressina (o ipocretina) che è un neuromodulatore
che regola il ritmo sonno-veglia e l’appetito. Esso é in grado
di assicurare il passaggio graduale tra stati di vigilanza. La sua
alterazione può causare narcolessia: patologia caratterizzata dalla
improvvisa comparsa di sonno REM durante le ore di veglia.
La durata del sonno
Il bisogno e la durata di sonno variano con l’età. Un neonato dorme
dalle 15 alle 18 ore al giorno con prevalenza della fase REM che é
essenziale per lo sviluppo dei processi nervosi e la formazione di
connessioni corticali. All’età di 10 anni si dorme intorno alle 11 ore.
Per un adulto sono sufficienti 7-8 ore. Gli anziani infine dormono
circa 5-6 ore a notte. La maggioranza degli adulti dovrebbe dormire
dalle 7 alle 8 ore a notte. Dormire troppo poco (meno di 5 ore)
o troppo (più di 9 ore) causa alterazioni dell’organismo. Risulta
salutare anche un pisolino post prandiale. Una siesta di 10-20 minuti
oltre ad essere assolutamente naturale migliora la produttività.
Effetti favorevoli del sonno profondo
Il sonno profondo esercita numerosi effetti favorevoli:
a)effetto antinfiammatorio e miglioramento dell’efficienza del
sistema immunitario;
63
b)attivazione nel cervello di meccanismi di pulizia che portano
alla eliminazione di metaboliti potenzialmente neurotossici (beta-
amiloide) attraverso il sistema glinfatico che funziona in prevalenza
durante le ore del sonno;
c)ristrutturazione della memoria a breve ed a lungo termine.
Il consolidamento della memoria permette di memorizzare le
informazioni e fissare le percezioni sensoriali acquisite durante il
giorno.
Effetti dovuti alla deprivazione di sonno
La deprivazione di sonno determina la diminuzione delle prestazioni
cerebrali, la compromissione della memoria e genera uno stato di
ansia. Non dormire stimola una maggior produzione di cortisolo.
Inoltre chi dorme meno di sei ore a notte produce livelli inferiori di
melatonina aumentando i rischi di ipertensione arteriosa e malattie
cardiovascolari. Nei bambini la deprivazione di sonno può scatenare
la sindrome da deficit dell’attenzione ed iperattività. Al contrario i
bambini che dormono di più hanno una soglia di attenzione più
alta e un atteggiamento più calmo, sono più in grado di imparare e
adattarsi ai cambiamenti. Ricerche epidemiologiche condotte negli
individui anziani dimostrano come sia i soggetti che dormono
poco sia i lungodormienti presentano una funzione cognitiva
peggiore ed un maggior declino cerebrale rispetto ai soggetti che
dormono 7-8 ore per notte. Una eccezione è rappresentata dagli
“short sleepers”: soggetti che dormono per un tempo molto limitato
senza che questo comporti alcun effetto negativo sulla salute.
Questi soggetti sono portatori di una mutazione del gene DEC2
che regola il ritmo sonno-veglia modulando il neurotrasmettitore
oressina che è prodotto dai neuroni dell’ipotalamo (Hirano et al.,
2018). Uno studio di Eide et al. (2021) dell’Università di Oslo
dimostra come una notte di totale privazione del sonno influisce
sulla clearance molecolare dal cervello umano. Il fenomeno è
stato osservato utilizzando la risonanza magnetica multifase dopo
somministrazione di “gadobutrolo”. È questo un marker atto a
64
valutare il trasporto di metaboliti idrosolubili, comprese le proteine
Tau e la beta-amiloide, escreti all’interno del cervello. Una notte
di privazione del sonno causa un’ alterata eliminazione del marker
dalla maggior parte delle regioni del cervello, compresa la corteccia
cerebrale, la sostanza bianca ed il sistema limbico. I risultati dello
studio condotto sul cervello umano supportano l’ipotesi che gli
spazi interstiziali aumentino durante il sonno come è già stato
dimostrato nell’animale da esperimento. Tali osservazioni possono
avere implicazioni sulla comprensione dell’impatto del sonno
disturbato nella evoluzione delle malattie neurodegenerative.
Effetti legati all’eccesso di sonno
Un eccesso abituale di sonno è in grado di causare malattie
metaboliche (obesità, diabete, etc.), cardiovascolari e depressione.
Migliorare la qualità del sonno
La qualità del sonno può essere migliorata con la sana alimentazione,
praticando attività fisica regolare, alternando il lavoro mentale
con quello fisico, mantenendo il cervello attivo con un continuo
apprendimento che stimola la formazione di nuove sinapsi,
praticando cicli di Hatha Yoga e di meditazione ed evitando
il consumo di sostanze eccitanti. Anche l’impiego notturno e
continuativo di smartphone o di schermi Tv crea stimoli psicologici
ed emotivi negativi in grado di ridurre la qualità del sonno. Nei
bambini piccoli è importante dedicare del tempo con la narrazione
di storie inventate che possano accompagnarli verso un sonno
tranquillo. Grazie ai racconti si stimola la produzione di ossitocina,
l’ormone dell’amore che imprime sicurezza.
Parole di Albert Einstein:
«Se volete che vostro figlio sia intelligente, leggetegli delle favole; se
volete che sia molto intelligente, leggetegliene di più» (Maira, 2020).
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Lorenzo Emmi
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La storia del microbiota parte da molto lontano, se pensiamo che
già Ippocrate (460-370 a.C.) aveva detto: “lasciate che il cibo sia
la vostra medicina e che la medicina sia cibo” ed ancora “tutte le
malattie hanno origine nell’intestino”. Più tardi e Ludwig Feurbach
(1804-1872) aveva sentenziato: “siamo ciò che mangiamo”.
Questo tipo di pensiero ha dominato la medicina fino alla fine
dell’ottocento, dando così un’enorme importanza al benessere
intestinale come precondizione per la salute della persona. Basti
ricordare l’abitudine dei medici, anche molto illustri, di praticare
clisteri al fine di “ripulire” l’intestino per le patologie più varie,
così come l’ampia divulgazione del concetto di intossicazione
intestinale ed epatica portata avanti da medici e pazienti per
spiegare i sintomi più eterogenei. Successivamente è iniziato ad
emergere il concetto di flora intestinale, intesa come un piccolo
ecosistema di batteri che poteva essere alterato in corso di
terapie antibiotiche protratte, onde l’uso di associare alla terapia
antibiotica una supplementazione vitaminica e più recentemente
anche una terapia a base di fermenti. Ma è soltanto a metà degli
anni novanta del secolo scorso che è stato introdotto da Jeffrey
Gordon della Washington University il termine microbiota per
riferirsi a tutte le specie microbiche che abitano un determinato
ambiente. L’interesse tardivo dei gastroenterologi, degli
immunologi e degli internisti per il microbiota si deve al fatto che
per molto tempo la flora batterica degli apparati, ed in particolare
del tratto gastroenterico, è stata esclusivamente studiata con le
tecniche di microbiologia classica che prevedono l’isolamento e la
coltura dei batteri e che pertanto riuscivano ad evidenziarne solo
un limitatissimo numero. Soltanto con l’avvento delle tecniche
di metagenomica1 si è compreso come il microbiota sia in realtà
costituito da un enorme numero di microrganismi che colonizzano
il nostro intestino e non solo. Questo ha portato all’attuale concetto
di microbiota e di qui all’interesse internazionale per questo tema.
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microrganismi.
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Questa grande avventura conoscitiva che ha condotto ad una vera
rivoluzione copernicana o per dirla con l’epistemologo americano
Thomas Kuhn ad uno slittamento di paradigma, è iniziata nel
2008 con lo “Human Microbiome Project”, promosso dal National
Institutes of Health e volto all’identificazione e caratterizzazione
di tutti i microrganismi ed al loro rapporto con lo stato di salute e
di malattia. Lo studio prevedeva la sua conclusione nel 2013, ma in
realtà si è completato soltanto nel 2016. Il progetto aveva lo scopo di
studiare cinque principali siti corporei (apparato gastrointestinale,
apparato urogenitale, cute, scalpo, cavo orale) usando le tecniche
di metagenomica. Prima di affrontare il tema del microbiota e delle
sue relazioni con il Sistema Nervoso Centrale (SNC), è necessario
fare un breve excursus sugli aspetti generali del microbiota stesso.
Microbiota e Microbioma
Per microbiota si intende tutto l’insieme dei microrganismi che
popolano il nostro corpo. Con il termine microbioma ci si riferisce
invece, oltre che all’insieme dei microrganismi, anche al complesso
dei loro geni. Infine, il termine ologenoma sta ad indicare
l’insieme dei nostri geni, nonché dei geni di tutti i microrganismi
con cui co-abitiamo. Dato che il numero dei geni microbici è circa
centocinquanta volte superiore al numero dei geni costituenti il
nostro genoma, è stato detto, in maniera un po’ provocatoria, che
siamo noi ospiti dei batteri. Il microbiota rappresenta in realtà un
ecosistema complesso, costituito da vari sottosistemi, rappresentati,
oltre che dal microbiota gastrointestinale, che è certamente il più
rilevante, sia dal punto di vista della complessità numerica, che dal
punto di vista funzionale, da quello urogenitale, cutaneo, orale,
delle prime vie aeree e del polmone profondo. Il microbiota è
costituito da batteri, funghi, parassiti, virus, batteriofagi ed infine
da batteri molto antichi definiti Archaea. La popolazione batterica
è largamente preponderante, rispetto a quella virale e dei funghi,
sia dal punto di vista numerico che funzionale. Sono noti numerosi
phyla batterici, tra i quali i principali sono i Bacteroitedes, i
69
Firmicutes, gli Actinobacteria e i Proteobacteria. Il microbiota è
costituito da un “core” che si va definendo già nella fase prenatale per
poi rappresentare un ecosistema molto complesso che raggiunge la
sua maturità intorno ai tre/quattro anni di vita. Da quel momento
in poi la struttura del microbiota di un determinato individuo
dovrebbe rimanere costante fino alla senescenza. Ciò, a patto che
lo stile di vita di quel soggetto rimanga sostanzialmente costante
e stabile per tutta la vita. A tale proposito forse l’osservazione
più rilevante dal punto di vista fisiopatologico è proprio quella
riguardante i rapporti tra microbiota e stile di vita.
Fattori che regolano la composizione del microbiota
È stato osservato che la composizione del microbiota dipende,
durante l’età gestazionale e neonatale, da numerosi fattori quali:
a) genetica individuale; b) età gestazionale; c) presenza di malattie
e/o infezioni materne; d) tipo e carico di stress, ma soprattutto
la modalità di risposta ad esso; e) ambiente in cui vive la madre
durante il periodo di gestazione; f) eventuale uso di antibiotici,
il loro dosaggio e la durata del trattamento; g) eventuale
ospedalizzazione, la sua durata e frequenza; h) tipo di parto, se
per via vaginale o mediante parto cesareo; i) tipo di allattamento,
se al seno o allattamento artificiale. D’altro canto, come abbiamo
detto il microbiota rimane costante fino alla vecchiaia, quando
si assiste ad una riduzione della biomassa, ma soprattutto della
biodiversità, nonché ad una modificazione della composizione
stessa della popolazione microbica. Durante la vita adulta il
microbiota può poi variare in base a numerosi fattori tra cui l’età,
l’attività fisica, l’uso di farmaci ed infine lo stress e l’alimentazione.
Quest’ultima è certamente il fattore più rilevante ed è in grado
da sola di “shiftare” la composizione del microbiota intestinale
in senso eubiotico o disbiotico. Ricordiamo che con il termine
eubiosi si intende una normale ed equilibrata composizione delle
varie popolazioni batteriche, mentre la disbiosi deve essere intesa
come una variazione nella composizione del microbiota con
prevalenza di specie microbiche pro-infiammatorie.
70
Sul piano strettamente fisiopatologico, l’enorme quantità di batteri
intestinali agisce in maniera dinamica e bidirezionale a livello
locale con profonde ripercussioni sistemiche, mediante vari
meccanismi: a) protezione e trofismo della mucosa intestinale;
b) produzione di vitamine essenziali per la vita (vitamina B12
e vitamina K); c) interazione e controllo dei batteri patogeni;
d) modulazione reciproca del Sistema Immunitario (SI) e sviluppo
dei meccanismi responsabili della tolleranza immunologica a
livello intestinale; e) interazione con il sistema endocrino locale
e con il sistema endocrino sistemico; f) interazione con il sistema
nervoso autonomo e con il sistema nervoso enterico; g) rapporto
tra nutrienti e microbiota; h) modulazione del nostro genoma
mediante meccanismi di tipo epigenetico microbiota-dipendenti
ed infine; i) interazione reciproca con il SNC.
Rapporti fra microbiota e SNC
I rapporti tra microbiota e SNC sono di straordinario interesse
teorico e pratico e sono riassunti nel concetto di “Gut-microbiota
brain axis”. Questo è rappresentato da una serie complessa di
interrelazioni anatomo/funzionali, che prevedono un costante
cross-talk tra sistemi complessi quali il SNC, il SI, il sistema
endocrino, il sistema nervoso autonomo e il sistema nervoso
enterico. Il fatto che tali sistemi si parlino presuppone che abbiano
una sorta di linguaggio a comune. Infatti da tempo è noto che, ad
esempio, il SI risponde ovviamente alle citochine e chemochine,
ma risponde anche a neurotrasmettitori, quali acetilcolina,
adrenalina e noradrenalina ed ormoni, quali il cortisolo, gli
estrogeni, il testosterone, la prolattina etc. Lo stesso dicasi del SNC
e del sistema endocrino. È pertanto ormai dimostrata l’esistenza di
una stretta interazione tra i tre sistemi.
Vie di comunicazione intestino/cervello
Sono rappresentate da:
1)vie anatomiche costituite dal sistema neurovegetativo simpatico
e parasimpatico;
2) asse ipotalamo-ipofisi-surrene;
71
3)asse rappresentato dal rapporto microbiota/SI;
4) asse rappresentato dai vari metaboliti prodotti dal microbiota
che comunicano ampiamente con il SNC;
5) stato di integrità della barriera intestinale e della barriera
ematoencefalica.
La prima via di comunicazione è rappresentata dall’attivazione del
sistema nervoso neurovegetativo, che in realtà costituisce una delle
vie principali di comunicazione tra sistemi biologici. Sappiamo
infatti da tempo che qualsiasi forma di stress attiva il sistema
nervoso simpatico con produzione di adrenalina e noradrenalina
(surrene) e che queste, oltre alle loro note azioni cardiovascolari,
sono anche provviste di attività pro-infiammatoria; per contro il
nervo vago è dotato di una notevole attività anti-infiammatoria.
Quest’ultima è di grande importanza ed è mediata dalla porzione
post-gangliare del vago che libera noradrenalina, in grado a
sua volta di interagire con specifici recettori beta-2 adrenergici
localizzati sulla membrana dei linfociti T. Questi ultimi, provvisti
dell’enzima colina-acetil-transferasi, producono e rilasciano
acetilcolina, che interagendo con specifici recettori alfa-7-
nicotinici per l’acetilcolina, presenti sui macrofagi, inibiscono il
rilascio di citochine pro-infiammatorie da parte di tali cellule,
quando attivate.
La seconda via di comunicazione è rappresentata dall’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Hypothalamic-Pituitary-
Adrenal-HPA-Axis). Come è noto da tempo l’attivazione
dell’HPA è il primo meccanismo di risposta ad uno stress, con
conseguente rilascio di CRH (Corticotropin-Release-Hormone)
da parte del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo che, agendo
sull’adenoipofisi induce la liberazione di ACTH (Adreno-Cortico
Tropic Hormone). Quest’ultimo stimola le cellule della corticale
ed in particolare la zona fascicolata della surrene a produrre
cortisolo, che insieme alla liberazione di catecolamine dalle
terminazioni simpatiche e dalla midollare surrenale, ha un ruolo
determinante nella preparazione del soggetto al “fight or flight”
72
– combatti o fuggi -. In particolare, le catecolamine inducono
aumento della frequenza cardiaca e degli atti respiratori, aumento
pressione arteriosa, rilascio di glucosio dalle riserve di glicogeno
epatico, d’altro canto l’aumento del cortisolo contribuisce
all’aumento della pressione arteriosa, dei livelli glicemici ed a
convertire gli acidi grassi in energia muscolare disponibile. Il
cortisolo determina anche una demodulazione delle risposte
immunitarie. Qualora lo stress diventi cronico, l’azione prolungata
del cortisolo può aver effetti indesiderati che possono rappresentare
un background per eventuali malattie infiammatorie, ma anche
neurodegenerative.
La terza via di comunicazione è rappresentata dal dialogo
continuo tra il SI costantemente modulato dal microbiota e il
SNC. Il concetto portante di questo dialogo è che il microbiota,
in base ai numerosi fattori che abbiamo ricordato, può essere
orientato più verso l’eubiosi o la disbiosi. Come già affermato
una definizione univoca di eubiosi e disbiosi in realtà non esiste,
tuttavia possiamo definire un microbiota eubiotico quando
questo presenta un equilibrio nell’ambito delle varie popolazioni
microbiche, al contrario si definisce disbiotico un microbiota in
cui non esiste un equilibrio tra le varie popolazioni, e ovviamente
si assiste ad una crescita esagerata di una certa popolazione a
scapito di un’altra. Inoltre è ormai abbastanza chiaro che un
microbiota disbiotico altera l’equilibrio del SI a livello intestinale.
D’ altro canto sappiamo oggi che il SI intestinale rappresenta
circa il 70% dell’intero sistema, e che a livello intestinale prevale
nettamente un ambiente tollerogenico costituito da macrofagi
prevalentemente di tipo M2 e comunque con fenotipo peculiare,
capaci di uccidere i microrganismi e al contempo di produrre
citochine anti-infiammatorie quali IL-10 (interleuchina-10) e
FGF-beta (Fibroblast Growth Factor). È stato anche osservato che
l’ espressione di TLR-4 (Toll-like-Receptor) sulla superficie dei
macrofagi e delle cellule dendritiche intestinali è ridotta. Inoltre le
cellule dendritiche dei linfonodi mesenterici e le cellule dell’epitelio
73
intestinale sono provviste di una “Retinal Dehydrogenase”,
capace di convertire la vitamina A di origine alimentare in acido
retinoico che contribuisce alle caratteristiche tollerogeniche locali.
Infine, e questo è il dato più importante, le cellule T naive della
mucosa intestinale sono prevalentemente polarizzate in senso
regolatorio (cellule T FoxP3 + o Treg), in presenza di uno stato
eubiotico ed in particolare, come vedremo successivamente, in
presenza di un’ aumentata concentrazione di butirrato.
I fattori che contribuiscono alla generazione di tali cellule sono
rappresentati dall’abbondanza di cellule dendritiche CD103+,
dalla produzione locale di acido retinoico e dalla produzione di
TGF-beta (Trasforming Growth Factor) e IL-10. In presenza di
alcune particolari popolazioni batteriche come i batteri segmentati
filamentosi, al contrario le cellule T naive tendono a polarizzarsi
in senso Th17. Questa popolazione cellulare, se particolarmente
espressa, può essere causa di infiammazione, in particolare mediante
il reclutamento di granulociti neutrofili. Tuttavia la presenza di
linfociti Th17 ha anche un ruolo protettivo, sia in quanto assicura
una potenziale difesa verso microrganismi patogeni, sia in quanto
tali celle svolgono un ruolo determinante nel mantenimento della
funzione di barriera dell’epitelio intestinale. Ciò avviene mediante
l’azione di IL-17, ma soprattutto IL-22 che sono in grado di indurre
la produzione di Rig III-gamma da parte delle cellule dell’epitelio
intestinale, molecola dotata di potente attività battericida. I batteri
commensali sono quindi dotati di numerose funzioni, tra cui la
produzione di mucine, la produzione di proteine con funzione
battericida, la fosforilazione e la riorganizzazione strutturale, TLR
mediata, della zonulina, componente fondamentale nella
composizione delle “tight junctions” o giunzioni strette.
La quarta via di comunicazione è rappresentata dall’interazione
tra metaboliti prodotti dal microbiota intestinale e SNC. Le
molecole prodotte da oltre 1500 specie batteriche son davvero
innumerevoli, tuttavia possiamo almeno distinguere tre grandi
classi: a) neurotrasmettitori; b) acidi grassi a catena corta;
74
c) derivati del metabolismo del triptofano. I neurotrasmettitori
prodotti a livello intestinale sono molto numerosi, basti ricordare
che oltre il 70% della serotonina presente nel nostro organismo è
localizzata a livello intestinale ed in particolare è prodotta dalle
cellule enterocromaffini, ma anche da Streptococcus, Escherichia,
Enterococcus e Candida. Sempre a livello intestinale vengono
prodotti numerosi altri neurotrasmettitori quali l’acido gamma-
amino-butirrico (GABA) rilasciato da Lactobacilli e Bifidobatteri,
dopamina sintetizzata dal genere Bacillus, acetilcolina prodotta
da Lattobacilli ed infine noradrenalina sintetizzata e rilasciata da
Escherichia, Saccharomyces e Bacilli. Con riferimento agli acidi
grassi a catena corta, questi vengono prodotti dalla fermentazione
saccarolitica di carboidrati complessi che sfuggono alla digestione.
I principali prodotti sono il butirrato, l’acetato ed il propionato
denominati nel loro insieme acidi grassi a catena corta (SCFA=Short
Chain Fatty Acid). Il propionato è prodotto da numerosi phyla,
tuttavia la specie Akkermansia muciniphila è stata individuata
come la principale sorgente di tale molecola. Il butirrato è invece
prevalentemente prodotto da Ruminococcus bromii, Roseburia
intestinalis e Faecalibacterium prausnitzii, nonché da vari ceppi
di Clostridium, mentre la produzione di acetato è ampiamente
diluita tra varie popolazioni batteriche. Inoltre, il butirrato, ed
in parte anche il propionato, agiscono prevalentemente a livello
locale, mentre l’acetato sfugge al filtro epatico e può entrare nel
circolo sistemico. Nel 2003 alcuni recettori considerati fino ad
allora orfani di ligando, sono stati individuati come recettori per
gli SCFA e definiti GPR43 e GPR41, poi rinominati per il loro
legame con gli SCFA, Free Fatty Acid Receptor 2 e 3 (FFAR 2/3), a
cui aggiungere il GPR 109a. Nell’ambito degli SCFA il butirrato è
sicuramente il più rilevante ed è provvisto di numerose funzioni:
a) è cruciale per il mantenimento dell’integrità della mucosa colica
e come fornitore di energia;
b) è un potente inibitore della funzione di NF-kB, molecola chiave
per l’attivazione di citochine pro-infiammatorie;
75
c) favorisce la differenziazione di cellule T naive (linfociti T non
ancora differenziati) in cellule Treg;
d) è, insieme all’acetato e contrariamente al propionato, un potente
fattore lipogenico;
e) è un inibitore della proliferazione di cellule neoplastiche;
f) è un inibitore dell’istone deacetilasi, comportandosi quindi
come un fattore cruciale nel “reprogramming” epigenetico.
In tal senso il butirrato può influenzare la trascrizione di numerosi
geni responsabili del suo effetto neurotrofico ormai ben dimostrato.
Esistono infatti numerosi lavori che hanno dimostrato il ruolo del
butirrato nel proteggere i neuroni dall’apoptosi nella malattia di
Parkinson, e nel miglioramento della funzione di apprendimento
e memorizzazione in varie forme di demenza, tra cui la malattia
di Alzheimer. Sebbene ancora non sia chiaro quale sia la quota di
SCFA che è in grado di raggiungere il SNC, diversi studi hanno
dimostrato che tutti e tre gli SCFA sono presenti a livello del liquido
cefalorachidiano. Pertanto gli SCFA attraversano la barriera
ematoencefalica ed hanno un ruolo importante nel mantenimento
della sua integrità. Numerosi studi su modelli animali hanno
dimostrato un loro ruolo nello sviluppo e nell’omeostasi cerebrale
ed un’azione sia direttamente sui neuroni che sulla microglia.
Ulteriori metaboliti sono rappresentati da molecole derivate dal
metabolismo del triptofano. In condizioni eubiotiche, il triptofano,
aminoacido esclusivamente proveniente dalla dieta (cioccolato,
avena, banane, datteri, arachidi, latte e latticini) viene trasformato
in 5-OH triptamina e quindi in serotonina e in chinurenina.
In condizioni di infiammazione (produzione di IL-1, IL-6, TNF-
alfa), si assiste all’ attivazione dell’indoleamina 2,3 deossigenasi
(IDO), che trasforma gran parte del triptofano in chinurenina
con successiva produzione di acido quinolinico, responsabile
di neurotossicità. D’altro canto le citochine proinfiammatorie
favoriscono anche la produzione di glutammato, aminoacido
responsabile del fenomeno di eccitotossicità.
76
Infine, l’ultima modalità di interplay tra intestino e SNC è
rappresentata dallo stato di integrità della mucosa intestinale
e della barriera ematoencefalica e dall’osservazione che lo stato
di integrità della prima può influenzare la permeabilità della
seconda. Infatti semplificando molto, uno stato di disbiosi è in
grado di alterare la struttura delle giunzioni strette della parete
intestinale e indurre una condizione di maggiore permeabilità
fino a quella condizione nota come “leaky gut”, ovvero di intestino
permeabile. In questa condizione, citochine pro-infiammatorie
prodotte dal SI, in risposta allo stato disbiotico, neuro-ormoni,
metaboliti batterici, derivati del triptofano, possono raggiungere la
barriera liquorale, che ad opera delle citochine pro-infiammatorie
diventa più permeabile e consente l’ulteriore passaggio di
suddette molecole. In altre parole lo stato di infiammazione locale
(intestinale), ancorchè di basso grado, può diventare sistemico e
dare luogo a quel fenomeno oggi definito neuro-infiammazione.
Quest’ultima deriva, almeno in parte, dalla flogosi generata dalla
disbiosi a livello intestinale, ma anche da uno stato di infiammazione
prodotta a livello del SNC. Quest’ultimo infatti, oltre a non
rappresentare quel “santuario” o luogo inaccessibile al SI, come
si riteneva in passato, è popolato da un’abbondante popolazione
cellulare, nota come glia, che rappresenta una sorta di SI innato
locale. Inoltre, anche le cellule del SI quali i linfociti T possono
accedere al SNC, sia attraverso il nervo vago, sia attraverso le
strutture circumventricolari quali la lamina terminalis, l’eminenza
mediana e l’area postrema. Queste zone rappresentano anche punti
di passaggio preferenziali per le citochine pro-infiammatorie.
Dobbiamo inoltre ricordare che i linfociti T sono presenti anche
a livello degli spazi meningeali. Pertanto, citochine prodotte
perifericamente, giunte a livello del SNC mediante il vago o per via
ematica, citochine e chemochine prodotte localmente dalle cellule
gliali (microglia, astrociti e oligodendrociti), linfociti di origine
meningeale e linfociti T specifici generatisi e differenziatisi a
livello intestinale e pervenuti attraverso il vago o le aree della base
77
prima descritte, vanno a costituire la cosiddetta neuro-
infiammazione. Questa costituisce la base neurobiologica, sia
di malattie infiammatorie del SNC, come la sclerosi multipla,
che di malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson
e la malattia di Alzheimer. È stato anche dimostrato che alcune
citochine possono attivare il potenziale d’azione neuronale, sono
in grado di attivare l’HPA, e possono intervenire nel controllo dei
neurotrasmettitori. Inoltre le cellule gliali sono provviste di recettori
per PAMPS (Pathogen Associated Molecular Patterns), DAMPS
(Damage Associated Molecular Patterns), che rispettivamente
riconoscono sequenze molecolari presenti sui patogeni e molecole
derivate dal danneggiamento dei tessuti, ma anche per citochine
e chemochine. Inoltre, le cellule della microglia sono finemente
regolate dalla composizione del microbiota. Infatti, ad esempio,
animali germ-free (allevati in ambiente totalmente privo di germi),
presentano profonde alterazioni strutturali della glia, quali:
a) immaturità delle cellule gliali;
b) aumento delle ramificazioni e riduzione dell’attività cellulare;
c) aumento della densità gliale, cui corrisponde sul piano clinico e
fisiopatologico, aumento dell’ ansietà, aumento della risposta allo
stress (attivazione della HPA), riduzione delle capacità di interazione
sociale, comparsa di movimenti stereotipati, ridotta capacità di
apprendimento e di memorizzazione. Negli animali germ-free si
assiste anche ad una riduzione dell’espressione di BDNF ed infine
ad una aumentata permeabilità della barriera ematoencefalica.
È stato anche osservato che animali gnotobiotici, ovvero
colonizzati soltanto con specifici tipi batterici, possono andare
incontro ad alterazioni strutturali e ultrastrutturali a livello
cerebrale, accompagnate da modificazioni comportamentali.
Inoltre è stato dimostrato che un microbiota eubiotico è in
grado di attivare gli Aril-Hydrocarbon Receptors (AHR) a
livello della microglia, con conseguente inibizione di NF-kB,
riduzione di VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) e
incremento di TGF-beta.
78
Questo porta ad una demodulazione degli astrociti cui consegue
riduzione dell’infiammazione, della neurotossicità e del
“recruitment” delle cellule immunitarie. Al contrario, un microbiota
disbiotico porta ad una interazione glia/astrocita completamente
opposta con conseguente aumento dell’infiammazione, aumento
della neurotossicità e aumento del reclutamento dei linfociti a
livello cerebrale.
In sintesi è possibile affermare che:
a) esiste un legame bidirezionale tra cervello e intestino/microbiota;
b)tale cross talk avviene mediante cinque vie ormai abbastanza
conosciute;
c)numerosi esperimenti su animali germ-free oppure su animali
gnotobiotici, hanno dimostrato in modo inequivocabile che la
deprivazione di batteri induce una grave alterazione della microglia
e predispone alla comparsa di malattie neurodegenerative;
d) il traffico dall’intestino al cervello è costituito sia da moleco-
le (neurotrasmettitori di origine batterica, neurotrasmettitori di
provenienza dalle cellule enterocromaffini, metaboliti del tripto-
fano, SCFA, citochine pro-infiammatorie, ormoni) sia da cellule;
e) lo stato di disbiosi e il conseguente aumento della permeabilità
intestinale fino allo stato di “leaky gut” favorisce il traffico
dall’intestino al cervello, oltre ad aumentare la permeabilità della
barriera ematoencefalica con conseguente loop autocrino;
f)l’arrivo di molecole e linfociti dall’intestino al cervello
favorisce la neuro-infiammazione, che, come già ricordato,
rappresenta un’alterazione responsabile, almeno in parte, della
comparsa di malattie infiammatorie e neurodegenerative;
g)gli SCFA possono interagire con specifici recettori presenti sulle
cellule entero-endocrine e stimolare la secrezione di glucagon-like
peptide 1 (GLP-1) e peptide YY (PYY), mentre la stimolazione delle
cellule beta pancreatiche porta ad un aumento della secrezione di
insulina. GLP-1 e PYY raggiungono poi l’ipotalamo, dove
interagendo con specifiche aree controllano il senso dell’appetito.
Non solo, la stimolazione consensuale da parte di numerose
79
molecole di provenienza intestinale, unitamente ai classici feed-
back neuro-endocrini e neuro-trasmettitoriali, è capace di modu-
lare molte attività emotivo-cognitive, quali l’impulsività, l’ansietà,
la depressione, la regolazione del sonno e il comportamento ali-
mentare;
h)alcuni metaboliti intestinali sono poi provvisti di una attività di
“riprogrammatori epigenetici”.
L’ esempio più noto è rappresentato dal butirrato che, interagendo
con il recettore GPR-109a, espresso sui colonociti, ma anche
sulle cellule della microglia, si comporta come un inibitore
dell’enzima istone-deacetilasi. Ricordiamo, semplificando, che
mentre la ipometilazione si associa ad un’ attivazione genica, la
deacetilazione comporta una inibizione del gene corrispondente.
D’altro canto è stata osservata da tempo una aumentata espressione
di GPR 109a nelle cellule microgliali a livello della substanzia
nigra nei pazienti con malattia di Parkinson. Inoltre il trattamento
con idrossibutirrato induce, in modelli di Parkinson in vitro
ed in vivo, un effetto antinfiammatorio mediante l’interazione
con il recettore GPR 109a e successiva demodulazione di NF-
kB. Sempre sul piano neurocognitivo, numerosi studi hanno
dimostrato effetti benefici di una dieta ad alto contenuto di fibre
sulla memoria e sulla cognizione. Ad esempio bambini con dieta
ad alto contenuto in fibre mostrano un miglior profilo cognitivo
(attività multitasking, working memory), rispetto a bambini
tenuti a dieta a basso contenuto di fibre. Forse il miglior modello
umano di correlazione tra intestino e cervello è rappresentato
dai disturbi dello spettro autistico. Infatti il 70% dei bambini con
autismo riferisce disturbi intestinali. Inoltre, il trapianto fecale
ha determinato in questi pazienti un netto, anche se transitorio,
miglioramento di tali sintomi, ma non dei disturbi della sfera
neuropsichica. Interessante l’osservazione che in questo caso,
un’ elevata concentrazione di SCFA, ed in particolare di acido
propionico, potrebbe contribuire alla comparsa di alcuni disturbi
tipici dell’autismo. In accordo con questi studi, è stato osservato
80
un aumentato rischio di autismo in bambini che assumono
valproato, farmaco anti-epilettico, che , analogamente al butirrato,
è un potente inibitore dell’istone deacetilasi.
Sinossi
In sintesi possiamo affermare che il rapporto intestino/cervello,
reso molto più complicato ed intrigante dalla comparsa di un
terzo attore, il microbiota, sta assumendo sempre maggiore
importanza per la comprensione di numerose malattie. Le più
studiate sotto questo profilo sono alcune malattie infiammatorie
quali l’artrite reumatoide e la sclerosi multipla, ma anche le
malattie cardiovascolari, quelle metaboliche, come il diabete
e l’obesità, il cancro, le malattie neurodegenerative (Parkinson
e Alzheimer), ma anche alcune patologie psichiatriche come
la depressione, l’autismo e la schizofrenia. Infine lo studio del
microbiota sta aprendo nuove ed imprevedibili prospettive per la
comprensione del fenomeno dell’invecchiamento. Infatti è stato
osservato che il microbiota con il progredire dell’età va incontro a
profonde modificazioni e che il microbiota dei centenari presenta
caratteristiche del tutto particolari. Relativamente allo specifico
rapporto intestino/microbiota/ cervello o “Gut-microbioma
brain axis”, possiamo affermare che questo si realizza secondo
vie anatomiche, neuro-ormonali e biochimiche ormai abbastanza
note. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che alterazioni di
questa interazione potrebbero contribuire alla patogenesi di molte
malattie soprattutto di quelle neuropsichiatriche. D’altro canto è
ora chiaro che lo stile di vita può avere profonde ripercussioni
sullo stato di “salute” del microbiota rendendo virtuosi tutti i
meccanismi che presiedono al “Gut-microbiota brain axis”. Appare
chiaro che uno stile di vita consapevole che includa una costante
attività fisica di tipo aerobico, un’ alimentazione equilibrata ricca
in frutta, verdure, legumi, pesce, carne bianca e povera in cibi a
base di carne rossa e zuccheri semplici e complessi, una ricerca,
per quanto possibile di una vita in ambienti verdi e con un ridotto
carico di stress, sembra essere il miglior antidoto allo sviluppo di
numerose patologie talvolta anche molto gravi.
La stimolazione
del sistema en-
terico da parte
del nervo vago
rilascia acetilco-
lina che esercita
un effetto an-
tinfiammatorio.
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L’ incremento della vita media della popolazione che si è registrato
negli ultimi 50 anni è dovuto ai notevoli progressi della scienza.
L’ aspettativa di vita ha superato di gran lunga gli 80 anni
raggiungendo gli 86,2 anni per le donne e gli 81,6 per gli uomini
(dati AUSL Toscana centro). L’ incremento dell’età media è stato
tuttavia accompagnato da un aumento delle malattie croniche in
gran parte dovute a stress ossidativo e ad infiammazione.
Sono quindi aumentate le malattie metaboliche (diabete,
sindrome metabolica, obesità), osteoarticolari, cardiovascolari,
neurodegenerative e tumorali. Gran parte di queste sono da
attribuire ad uno stile di vita disordinato ed a fattori ambientali
(esposizione a particelle inquinanti ricche di metalli). Regime
dietetico con cibi spazzatura, sedentarietà, fumo, abuso di alcol e
di sostanze illecite, inquinamento ambientale sono oggi le prime
cause dell’incremento di queste affezioni. Inoltre risulta che il 50%
della popolazione dai 65 ai 74 anni ed il 70% al di sopra dei 75 anni
è affetto da almeno due malattie croniche coesistenti che incidono
negativamente sulla qualità della vita e sui costi del sistema sanitario.
In ambito neurologico sono da considerare le malattie vascolari
ed in particolare la malattia arteriosclerotica e l’Ictus. Esso
rappresenta un’alterazione improvvisa della vascolarizzazione
cerebrale che può essere di natura ischemica, e quindi legato ad
occlusione arteriosa da crescita di una placca arteriosclerotica, o
da trombi, cioè coaguli occludenti, o da emboli provenienti da altre
parti del corpo (ad esempio in pazienti con fibrillazione atriale) o di
natura emorragica e cioè dovuto alla rottura di un vaso sanguigno
cerebrale da improvviso incremento della pressione arteriosa o da
rottura di un aneurisma endocranico (ad es. del poligono di Willis)
con improvvisa comparsa di sintomatologia neurologica di tipo
motorio-sensitivo, disturbi della parola e di tipo visivo. Se il flusso
di sangue al cervello viene interrotto si ha perdita di coscienza
in pochi secondi. Se l’ episodio ischemico è di breve durata (1-2
ore) viene definito TIA (Attacco Ischemico Transitorio). Un evento
emorragico può esordire anche in pazienti in terapia anticoagulante
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(ad es. warfarin) e può richiedere un intervento chirurgico d’urgenza.
In caso di rottura di un aneurisma l’accumulo di sangue può verificarsi
anche nello spazio subaracnoideo che è la sede del liquido
cefalorachidiano. Un’importante percentuale di patologie
neurologiche è rappresentata da malattie neurodegenerative
(morbo di Alzheimer, Parkinson, Corea di Huntington, Sclerosi
multipla, Sclerosi Laterale Amiotrofica-SLA) e dalle demenze
(m. di Alzheimer, demenza vascolare, demenza idrocefalica, etc.).
Esse rappresentano una delle maggiori cause di disabilità nella
popolazione generale e costituiscono un problema rilevante in
termini di sanità pubblica. In Europa la demenza di Alzheimer
rappresenta il 54% di tutte le demenze con una prevalenza nella
popolazione ultrasessantacinquenne del 4,4%. In Italia circa un
milione di persone soffre di demenza. Oltre il 50% sono affette
dal morbo di Alzheimer di cui il 10-15% presentano una forma
lieve della malattia. Questa patologia ha un elevato costo sociale
(il costo medio annuo per paziente è superiore a 70.000 Euro). Per
quanto riguarda i disordini di natura psichiatrica il più comune è
rappresentato dalla sindrome depressiva maggiore. La prevalenza
di questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nel sesso
femminile. Per questo tipo di patologie è necessario adottare
strategie di prevenzione primaria (stile di vita, alimentazione, cura
dell’ambiente) e secondaria (diagnosi precoce) e creare una rete
integrata di servizi sanitari e socio-assistenziali per far fronte alle
necessità dei pazienti (Di Pucchio et al., 2017; www.iss.it/demenza).
Nel 2017 l’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha decretato che la
depressione rappresenta la principale causa di disabilità nel mondo
con oltre 300 milioni di casi. Se prendiamo in considerazione
i tumori del SNC presentano, in Europa, un’ incidenza di 5 casi
su 100.000 abitanti e sono responsabili del 2% di tutte le morti
per cancro. Negli ultimi decenni è stato registrato un aumento di
queste neoplasie che risulta più elevato nel sesso maschile. Il tumore
maligno più frequente, aggressivo e letale, è rappresentato dal
Glioblastoma che è caratterizzato da una sopravvivenza mediana
di 15 mesi dalla diagnosi. Un team di scienziati della Columbia