LA TERZA PARTE :
University (NY-NY), guidato dagli italiani Lavarone e Lasorella, ha
scoperto che il 20% di questi tumori è caratterizzato da iperattività
dei mitocondri. Il loro sviluppo potrà quindi essere controllato
utilizzando farmaci inibitori.
Altri tumori sono: astrocitomi, oligodendrogliomi, meningiomi,
ependimomi, medulloblastomi (derivano dal cervelletto e sono
frequenti nei bambini), neurinomi del nervo acustico e trigemino,
linfomi primitivi del SNC, adenomi ipofisari ormonosecernenti
e non, ed infine tumori metastatici secondari a neoplasie del
polmone, della mammella, etc.
Fattori di rischio sono rappresentati dalle radiazioni gamma
e dalle radiazioni X (Linee guida AIOM, 2019). I segni ed i
sintomi dipendono dalle dimensioni del tumore, dalla sede di
origine, dal blocco della circolazione del liquido cerebro-spinale,
dalla formazione di edema cerebrale per accumulo di liquido
extracellulare. Quando aumenta la pressione endocranica compare
cefalea e vomito e possono manifestarsi disturbi della vista, dello
stato di coscienza, dell’ equilibrio, difficoltà alla deglutizione,
disturbi della sensibilità e motilità degli arti. Quando il tumore
interessa la corteccia cerebrale sono frequenti crisi epilettiche.
Malattie neurodegenerative
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delle cellule della glia e del sistema vascolare. I neuroni subiscono un danno
progressivo che inizialmente compromette la comunicazione fra le cellule e poi
l’intera struttura cellulare fino alla morte neuronale. >,
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Quando sono colpite le cellule localizzate nella substantia nigra, che impiegano la
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comune di demenza (oltre il 50%) che esordisce prevalentemente in età pre-senile,
con prevalenza nella popolazione sopra 65 anni e nel sesso femminile. È associata
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ad atrofia cerebrale: la perdita di neuroni colinergici determina una riduzione dei
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tanto che è stata definita “killer dei pensieri”. Il sintomo più precoce e frequente è
la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Si accompagna a demenza, disorientamento
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altamente fosforilata e mal ripiegata, all’interno ed all’esterno dei neuroni cerebrali
e delle cellule gliali che interferisce con le normali funzioni cellulari. È quindi
una Tauopatia (Tau è una proteina che stabilizza i microtubuli ovvero le proteine
intracellulari, denominate tubuline, che insieme ai microfilamenti costituiscono il
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cellulare che porta all’accumulo della proteina Tau ed a morte neuronale (,
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et al., 2019).
(L’ autofagia è un processo di degradazione cellulare e di eliminazione di organelli
danneggiati, aggregati proteici, etc., per il mantenimento della omeostasi cellulare).
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Ci si interroga se lo smog possa favorire l’insorgenza di questa tauopatia e di
altre malatttie neurodegenerative dal momento che le particelle sottili possono
raggiungere il cervello attraverso le terminazioni nervose del naso. I neuroni del
lobo temporale sono i primi a morire nel morbo di Alzheimer. Il 7 giugno 2021 la
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monoclonale aducanumab per il trattamento del morbo di Alzheimer. I pazienti
trattati con questo farmaco pare abbiano una significativa riduzione della placca
amiloide beta.
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È una malattia neurodegenerativa ad alta incidenza dovuta alla degenerazione
dei neuroni della substantia nigra che sono deputati alla produzione del
neurotrasmettitore dopamina. I neuroni dopaminergici sono i primi a morire nel
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bradicinesia (difficoltà nell’avvio e nell’arresto dei movimenti), disturbi dell’equilibrio,
andatura impacciata, sensazione di piedi incollati al pavimento, diminuzione della
forza muscolare fino alla immobilità totale. Caratteristica dell’ affezione è anche la
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comparire, anche anni prima dell’esordio della malattia, in circa il 70% dei casi e
scialorrea da rallentamento dell’attività dei muscoli coinvolti nella deglutizione.
Nelle fasi avanzate della malattia si verifica deficit cognitivo, depressione, confusione
mentale. Si ritiene che l’ accumulo anomalo della Sinapsina III (proteina che insieme
ad alfa-sinucleina regola il rilascio di dopamina nel cervello) sia responsabile del
danno cerebrale alla base della malattia, a cui concorrono fattori ambientali (pesticidi,
metalli pesanti, etc.) e genetici.
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È una malattia neurodegenerativa di tipo genetico che esordisce nella mezza età. È
caratterizzata da degenerazione dei neuroni del nucleo caudato e si manifesta con una
sintomatologia complessa con disturbi della sfera motoria (movimenti involontari,
rapidi e aritmici), psichica e cognitiva.
Sclerosi multipla
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Sclerosi laterale amiotrofica (SLA)
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(degenerazione dei motoneuroni) che provoca la perdita del controllo dei muscoli
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R. Benelli
Le neuroscienze affettive studiano i meccanismi cerebrali neurali
che si attivano nei processi emotivo-affettivi e motivazionali e li
regolano in condizioni fisiologiche e patologiche.
Le neuroscienze affettive rappresentano uno degli ambiti
delle scienze cognitive che studiano l’anatomia, lo sviluppo, la
maturazione del sistema nervoso ma anche le connessioni
esistenti tra le diverse aree cerebrali, il loro funzionamento ed i
comportamenti manifesti. Compito primario delle neuroscienze è
anche quello di mappare aree e funzioni del cervello per capire come
esse operano. Il neuroscienziato che più di ogni altro ha contribuito
agli studi delle basi cerebrali delle emozioni e dei sentimenti affettivi
è stato Jaak Panksepp (1943-2017). A lui si deve la fondamentale
opera “Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle
emozioni di base”. Panksepp ha coniato il termine “Affective
Neuroscience” ed ha aperto un’ area di studi sui meccanismi neurali
delle emozioni, i processi mentali di base, le funzioni cerebrali, i
comportamenti emotivi e la loro localizzazione. Le ricerche dello
studioso si basano prevalentemente sull’analisi del comportamento
e dei processi cerebrali negli animali. Panksepp ha concentrato le
sue ricerche sul “cervello antico”, sede dei comportamenti istintivi
che il neuroscienziato Paul Donald MacLean (1913-2007) aveva
indicato come “cervello rettiliano”. Questa struttura, posta tra il
midollo spinale ed i due emisferi cerebrali, è indicata da Panksepp
come l’area del core-Self (interiorità), perché in essa risiede il
nucleo istintuale ed archetipico della personalità individuale.
Le Neuroscienze affettive hanno la loro centralità nella
triangolazione cervello-mente-comportamento
Si deve a Platone l’intuizione dell’ esistenza di “un’ anima tripartita”,
che comprende cognizione, emozione e motivazione.
Solo con Paul Donald MacLean viene introdotta la teoria del
“cervello trino” e vengono studiati lo sviluppo dell’encefalo
ed i rapporti fra la parte razionale e quella irrazionale più
aggressiva. Secondo Hilgard (1980) le emozioni rappresentano
89
il secondo elemento della “trilogia della mente” e sarebbero coinvolte
in tutte le attività della mente (Dodge, 1991). È pertanto ritenuta
“artificiale” la distinzione tra cognizione ed emozione: mondo
cognitivo e mondo affettivo interagiscono in maniera rilevante tanto
che risulta difficile separarli. Occorre precisare che le cognizioni
sono collegate in modo più stretto con le aree superiori del cervello,
mentre emozioni e sentimenti sono legati ai sistemi ancestrali ed
ereditari del cervello antico. Il neurotrasmettitore dell’emotività è
la dopamina che è deputata al controllo del comportamento.
Neurocircuiti o sistemi emotivi che regolano i diversi aspetti della
vita
Secondo Panksepp sette principali neurocircuiti o “sistemi
emotivi” regolano i differenti aspetti della vita, tanto che dalla
loro disfunzione e inibizione originano le principali malattie
psicosomatiche e i disturbi psicologici.
I sette neurocircuiti, rinominati dallo studioso utilizzando una
nomenclatura maiuscola, sono:
1) il sistema della RICERCA, del desiderio e dell’euforia, legato
alla dopamina;
2) il sistema della RABBIA e della dominanza, legato al testosterone
e alla serotonina;
3) il sistema della PAURA e dell’ansia, legato al cortisolo;
4) il sistema della SESSUALITÀ e della brama, legato agli ormoni
sessuali;
5) il sistema della CURA e dell’amorevolezza, legato all’ossitocina;
6) il sistema della TRISTEZZA, del panico e della solitudine
affettiva, legati all’assenza di CURA;
7) il sistema del GIOCO, della fantasia e della gioia, legati alla
dopamina e alle endorfine.
Riassumendo i sistemi emotivo-affettivi primari individuati a
livello sottocorticale sono i seguenti: Ricerca (attesa), Rabbia
(collera), Paura (ansia), Desiderio Sessuale (eccitazione sessuale),
Cura (accudimento), Tristezza (panico/sofferenza), Gioco (gioia
sociale). Tali sistemi generano esperienze affettive distinte, che
90
possono sovrapporsi in varia misura. È questo il caso del sistema
della RICERCA (Seeking System). Esso partecipa alla maggior parte
degli altri sistemi, tutti controllati dagli stessi neurotrasmettitori
cerebrali: serotonina, norepinefrina e acetilcolina.
L’ esperienza emozionale come attivazione dei circuiti neurali
sottocorticali
Secondo la teoria neurofisiologica degli psicologi James e Lange
(1884), l’ esperienza emozionale soggettiva viene percepita alla
fine di un processo che si svolge a livello interiore. Secondo questa
prospettiva l’ esperienza emozionale è concepita come attivazione
dei circuiti sottocorticali, a loro volta origine dell’arousal (stato
di eccitazione) fisiologico viscerale, in grado di generare intense
esperienze affettive, da intendersi come la percezione o il vissuto
soggettivo dell’emozione. Panksepp sostiene che i circuiti
sottocorticali che presiedono ai diversi processi emotivi primari
danno luogo ad una vera e propria coscienza affettiva. Questo
pensiero innovativo è basato su solide evidenze sperimentali.
I processi affettivi primari, oggetto della sua ricerca, rappresentano
la condizione filogenetica e ontogenetica della nascita dei processi
secondari, legati all’apprendimento emotivo, e dei processi
terziari, connessi alla più evoluta capacità di riflettere sulla propria
esperienza emotiva. I processi primari sono, dunque, una sorta di
motore emotivo motivazionale di base, di repertorio filogenetico
di risposte e “categorizzazioni” valoriali degli oggetti ed eventi del
mondo sul cui fondamento viene costruita la mente “superiore”,
nelle sue componenti affettiva e cognitiva.
Per questo motivo, per renderci conto di cosa sia un’ emozione
come la paura, dobbiamo capire le relazioni che intercorrono tra
il sentimento cognitivo, mediato dalla corteccia cerebrale, e le
manifestazioni fisiologiche associate, che sono governate dalle
strutture sottocorticali. Da un punto di vista generale le tesi di
Panksepp introducono il tema della portata terapeutica della
psicoanalisi e della psicoterapia in relazione ai livelli emotivi della
persona. Il neuroscienziato concepisce le varie sindromi 91
psicopatologiche come squilibri emotivi da valutare caso per
caso e considera i termini “depressione”, “schizofrenia”, “autismo”
troppo generici, ovvero mere etichette nosografiche. L’intervento
psicoterapeutico, in questa prospettiva, riguarderebbe solo i “livelli
alti” della psiche, quelli delle emozioni più evolute, complesse e
“sociali”, legate ai processi secondari e terziari di apprendimento
e categorizzazione linguistico-cognitiva, come la vergogna, il
senso di colpa, la gelosia e l’invidia, senza possibilità di incidere
in maniera significativa sulle emozioni primarie, come l’ansia, la
rabbia o l’eccitazione sessuale. Nel caso specifico della depressione,
sarebbero principalmente coinvolti un’ iperattivazione del “sistema
della TRISTEZZA”, e una ridotta funzionalità dei “sistemi della
RICERCA e del GIOCO” con conseguente riduzione dell’entusiasmo
e dell’esuberanza. Ponendo la dimensione affettiva come centro
energetico ed organizzativo della psiche, Panksepp sostituisce il
“penso dunque sono” di Cartesio con “sento dunque sono”.
Il cervello emotivo
«Mi emozioni dunque penso», il cervello reagisce prima agli
stimoli sensoriali che alla ragione. Questa tesi è ormai sostenuta
da numerosi studi.
Parlare di cervello emotivo significa:
a) constatare che le emozioni provengono dal cervello;
b) interrogarsi su come il cervello percepisce stimoli emotivamente
eccitanti e ad essi risponde;
c) conoscere le modalità con cui avviene l’apprendimento e si
formano i ricordi emotivi;
d) conoscere le modalità con cui i nostri sentimenti coscienti
emergono dai processi inconsci.
Anche se ciascuno di noi, nel corso della vita, prova amore, odio,
rabbia, gioia e felicità, occorre domandarci cosa lega questi stati
mentali al groviglio che chiamiamo «emozioni».
Negli ultimi anni le emozioni sono diventate argomento continuo
di discussione. Enorme risonanza ha poi avuto la nozione di
intelligenza emotiva, con ripercussioni anche pratiche sulla vita e
92
93
l’organizzazione scolastica e lavorativa. Tuttavia definire cosa è una
emozione e come è possibile indagarla rimane assai problematico.
Lo psicologo William James (1842-1910), nel 1884, in What is
an Emotion, descriveva le caratteristiche peculiari dei processi
emotivi e quindi delle emozioni come meccanismi che consentono
di attribuire un valore – positivo o negativo – all’informazione
sensoriale di cui si fa esperienza.
Il sistema emozionale pertanto elabora le informazioni utilizzando
regole e procedure profondamente diverse rispetto al sistema
cognitivo: regole che sembrano principalmente il risultato di
un processo evolutivo. Darwin, in “L’ espressione delle emozioni
nell’uomo e negli animali” (1872), sottolineava l’importanza delle
funzioni emotive ai fini della sopravvivenza: interpretare in
modo corretto le intenzioni di chi ci sta di fronte è certamente
indispensabile per poter sopravvivere. Il sistema emozionale, in
definitiva, può essere considerato a tutti gli effetti un sistema
adattivo. Alla stregua del sistema cognitivo esso prevede processi
di analisi dell’informazione, la sua elaborazione, l’ organizzazione
della risposta e la memorizzazione. A differenza del sistema
cognitivo il sistema emozionale è un sistema di emergenza:
necessita quindi di un’ analisi rapida, se pure grossolana, e di una
altrettanto rapida risposta, se pure stereotipata.
Secondo il neuroscienziato Joseph LeDoux, l’ emozione può essere
definita come il processo mentale attraverso il quale il cervello
determina o computa il valore di uno stimolo. Da questo processo
derivano:
a) reazioni corporee, con comparsa di manifestazioni interiori ed
esteriori;
b) la consapevolezza dell’importanza di quanto sta avvenendo
(sentimento);
c) l’ attivazione del sistema motivazionale che spinge all’azione.
Elaborazione neurofisiologica delle emozioni
Da un punto di vista neurofunzionale il monitoraggio ambientale
e l’elaborazione delle emozioni avvengono a livello dell’amigdala,
dove differenti strutture codificano le informazioni in entrata
che provengono dal talamo (cortocircuito talamo-amigdaloideo),
dalla corteccia sensoriale (via lenta corticale che valuta le
caratteristiche cognitive dello stimolo), dall’ippocampo (dati in
memoria esplicita), dal cingolo anteriore (arousal emotivo), dalla
corteccia frontale (interfaccia tra sistema emotivo e cognitivo).
Il risultato dell’elaborazione, oltre a produrre un feedback sulle
strutture di partenza, raggiunge da una parte l’ipotalamo e i nuclei
del tronco dell’encefalo dove sono organizzate le risposte emotive e
dall’altra il nucleo accumbens che funge da stazione di collegamento
con il sistema motivazionale.
Sistema emozionale come sistema adattivo
La concezione del sistema emozionale come sistema adattivo
ha modificato progressivamente l’idea di una inevitabile
contrapposizione tra emozione e ragione. Secondo il
neuroscienziato Paul D. MacLean (1973) il cervello umano è il
risultato della organizzazione gerarchica di tre differenti strutture,
ognuna formatasi in diverse epoche dell’evoluzione:
a) la prima (il cervello rettiliano), corrispondente alle strutture
poste alla base dell’encefalo, controlla il comportamento automatico
ed istintivo;
b) la seconda (il cervello paleomammifero), corrispondente alle
strutture identificate come sistema limbico, controlla l’espressione
delle emozioni, l’aggressività e il comportamento sessuale;
c) la terza e più evoluta (il cervello neomammifero) che corrisponde
alla neocorteccia presiede al pensiero razionale e alla capacità di
risoluzione dei problemi.
Implicita nel modello è l’idea che, date le profonde differenze di
organizzazione anatomo-funzionale, i tre cervelli non possono
comunicare tra loro in modo efficiente. Di conseguenza l’ essere
umano vive in un costante conflitto interiore, lacerato dalle
differenti esigenze dei tre livelli evolutivi. L’umanità sarebbe
pervasa da un’ innata frattura neuropsicologica tra razionalità e
irrazionalità. Secondo l’ elegante sistematizzazione di MacLean, il
sistema emozionale sarebbe quindi un residuo ancestrale che deve
94
essere tenuto sotto controllo dalla parte più evoluta, cognitiva,
del sistema nervoso centrale. Solo l’integrazione tra aspetti emotivi
e cognitivi sembra in grado di assicurare un comportamento
adeguato. Possiamo concludere con le parole del neurologo Antnio
Rosa Damásio: “l’ emozione e il sentimento sono indispensabili
alla razionalità; … le decisioni personali e sociali sono cariche di
incertezza; …quando siamo di fronte all’incertezza, emozione e
sentimento ci assistono nello scoraggiante compito di prevedere un
futuro incerto e di pianificare in sintonia le nostre azioni”.
Le Emozioni: meccanismi cerebrali
Non esiste ad oggi una definizione unanime del concetto di
emozione. Essa può essere considerata come uno stato affettivo
di intensità variabile che coinvolge il cervello, ma anche l’intero
organismo, e si accompagna a modificazioni fisiologiche e
comportamentali fino a sfociare talora in quadri patologici.
L’ essenza dell’ emozione è un’ esperienza soggettiva che coinvolge
la sfera personale e che è conosciuta soltanto dal soggetto che
la esprime. Molte attività della nostra vita sono regolate dalle
emozioni. Aree cerebrali deputate al controllo dei processi
emozionali sono: il sistema limbico del cervello emotivo, la
corteccia pre-frontale del cervello razionale, i neuroni specchio.
Le emozioni sono in grado di dare colore ai pensieri, alimentano
le relazioni sociali ed influenzano le decisioni. Ma quali sono i
meccanismi cerebrali alla base delle emozioni e dei sentimenti ? I
meccanismi sono riconducibili ad un complesso di strutture che
fanno capo al sistema limbico nel quale l’amigdala ha un ruolo
essenziale in quanto coinvolta nella elaborazione delle emozioni.
I sentimenti affettivi possono essere considerati oggi “funzioni del
cervello” legate al neurotrasmettitore dopamina. Essa è prodotta
dalle cellule nervose della cosiddetta substantia nigra che fa parte
dei gangli della base ed è legata al piacere, al comportamento, ai
meccanismi di ricompensa, o alle dipendenze ed al movimento.
Livelli alterati di dopamina si verificano in alcune malattie
neurodegenerative fra cui il morbo di Parkinson che è caratterizzato
da un’ alterazione delle cellule nervose della substantia nigra. 95
Intelligenza emotiva e intelligenza sociale
Le modalità con cui identifichiamo, comprendiamo, esprimiamo,
regoliamo le nostre emozioni, così come quelle degli altri individui,
definiscono l’intelligenza emotiva.
Possedere una ” buona” intelligenza emotiva riduce l’ entità delle
reazioni dell’ organismo allo stress ed ai comportamenti a rischio
(fumo, alcol, droghe) e permette di avere successo e di migliorare
anche lo stile di vita. Di conseguenza essa esercita un’ azione
protettiva nei confronti di malattie cardiovascolari, metaboliche e
tumorali, favorisce la longevità ed una vita più felice.
Un buon livello di intelligenza emotiva migliora la gestione del
dolore e degli eventi patologici, al contrario una scarsa intelligenza
emotiva è associata a depressione, attacchi di panico, stati di ansia
e fobie sociali. L’incapacità di empatizzare, ovvero di riconoscere le
emozioni altrui, può essere associata a disturbi della cognizione
sociale quali l’ autismo e la schizofrenia.
La capacità di riconoscere ed identificare le proprie emozioni e
quelle delle altre persone coinvolge diverse aree cerebrali. Alcune
di esse (rete della cognizione sociale) aiutano a riconoscere gli stati
mentali degli altri individui, altre (corteccia insulare) identificano
le nostre emozioni e altre ancora (corteccia prefrontale) svolgono
un’ azione regolatrice.
La rete della cognizione sociale è costituita da un insieme di
aree cerebrali quali la giunzione temporo-parietale, la corteccia
prefrontale, il solco temporale superiore, il giro para-ippocampale.
Questa rete neurale svolge un ruolo importante nell’intelligenza
emotiva. Nelle persone dotate di una “buona” intelligenza
emotiva le connessioni fra corteccia prefrontale e amigdala
presentano una maggiore integrità. In particolare la corteccia
prefrontale è in grado di modulare l’attività della rete e regolare le
emozioni. Se non si è in grado di identificare le proprie emozioni
risulta difficile reagire in modo adeguato alle difficoltà che si
incontrano nel corso della vita.
96
97
Recenti studi sull’intelligenza emotiva hanno appurato che essa
è in parte legata a fattori genetici. Sono stati identificati due geni
implicati nei disturbi della regolazione delle emozioni: il gene 5-HTT
è legato all’attivazione dei trasportatori della serotonina, mentre il
gene COMT è implicato nella degradazione della dopamina nella
corteccia frontale. L’ essere portatore di una variante genica può
rendere il soggetto più vulnerabile all’instaurarsi di un disturbo
emotivo, ma è necessario che il gene sia espresso.
È stato osservato come sia possibile migliorare l’intelligenza
emotiva in qualsiasi momento della vita sfruttando i meccanismi
della plasticità cerebrale. I programmi di miglioramento mirano
ad allenare la corteccia prefrontale ad acquisire la capacità di
regolare in modo più agevole gli stati d’animo. Essi comprendono
la partecipazione a conferenze, a programmi di ascolto attivo, in
cui la concentrazione personale è ottimale, o anche a gruppi di
discussione, giochi di ruolo, per imparare a riconoscere le proprie
e le altrui emozioni. I vari programmi di formazione possono avere
la durata di alcuni giorni: sono preceduti da test di intelligenza
emotiva e di misurazione del livello di benessere percepito e
vengono somministrati anche alla fine del percorso formativo.
Alla conclusione del corso i partecipanti possono presentare un
innalzamento dell’intelligenza emotiva che può mantenersi nel
tempo. La misurazione dei livelli di cortisolo effettuata prima e
dopo un programma di formazione può dimostrare la diminuzione
dei valori a cui corrisponde un relativo miglioramento dello stato
di felicità. Inoltre l’attività cerebrale nelle aree coinvolte nella
regolazione delle emozioni può essere ridotta a dimostrazione di
una maggiore efficienza dei neuroni in tali sedi (Berthoz e Bourdier.
Le scienze. Mind, 2017).
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«Arti visive» o «visuali» sono forme di attività creativa che hanno
come prodotto finale un oggetto visibile.
Critici e storici dell’arte, nella seconda metà del XX secolo, hanno
coniato il termine “Arti visive” sostituendolo alla più generica
espressione di arti figurative. Dal 1980 il termine è diventato
popolare perchè spiega meglio il concetto di arte contemporanea.
Sono quindi da considerare arti visive tutte le forme artistiche
che coinvolgono la percezione visiva quali la pittura, la scultura,
l’architettura e la fotografia, ma anche la grafica, la computer
art, la video art, la body art ed ancora la scrittura, la prosa, la
poesia. A decretare la pertinenza di un oggetto al campo dell’arte
sono numerosi e variabili contesti, come altrettanto numerosi
e variabili sono i criteri di validazione. Nessuna opera può mai
dirsi definitivamente consegnata alla storia dell’arte, perchè la sua
identità (in quanto opera), dipende dalle interpretazioni che ne
vengono date e anche dal contesto in cui viene intesa, come ebbe a
sottolineare il critico d’arte statunitense Arthur Danto (1924-2013).
Anatomofisiologia della visione:
l’ elaborazione delle informazioni visive
I segnali luminosi sono radiazioni elettromagnetiche di differente
lunghezza d’onda composte da singoli “quanti di energia” (fotoni).
Una volta penetrati nell’occhio attraversano la cornea, l’umor
acqueo, il cristallino e l’umor vitreo (Figura). In questo percorso
subiscono fenomeni di diffusione e rifrazione per poi convergere
sulla retina (parete posteriore dell’ occhio) dove i fotoni attivano
cellule nervose note come fotorecettori. Esse contengono pigmenti
fotosensibili denominati coni e bastoncelli.
Fotorecettori della retina: Coni e Bastoncelli
I fotorecettori sono cellule nervose localizzate sulla retina. Questi
elementi sono sensibili alle onde luminose e sono in grado di
trasformare i segnali luminosi che arrivano sul fondo dell’occhio in
informazioni, prima chimiche, poi elettriche (potenziale di azione)
che vengono trasmesse per trasduzione al cervello attraverso
il nervo ottico. I fotorecettori della retina sono distinti in coni e 99
100
bastoncelli. I bastoncelli sono i più numerosi (circa 100 milioni) e
sono presenti soprattutto nella parte periferica della retina; sono
molto più sensibili dei coni ed in grado di ricevere e codificare
impulsi anche con una intensità luminosa minore (luce crepuscola-
re). Sono deputati alla visione monocromatica.
I coni (circa 6 milioni) sono presenti nella parte centrale della retina.
Essi sono meno sensibili ma specifici per le diverse lunghezze d’onda
dei colori additivi: vi sono coni per il rosso, per il verde e per il
blu. Sono quindi deputati alla visione diurna ai colori. La maggiore
concentrazione dei coni si trova in un’ area circoscritta centrale della
retina (macula) leggermente depressa al centro (fovea) dove si ha
perciò la maggiore acutezza visiva. Tutti gli oggetti che esaminiamo
con attenzione vengono messi a fuoco nella fovea.
I fotorecettori contraggono sinapsi con altre cellule della retina,
da cui nascono le fibre che costituiscono il nervo ottico (II nervo
cranico). I nervi ottici dell’ occhio destro e sinistro si incrociano
a livello del tronco encefalico nel cosiddetto “chiasma ottico” in
cui parte delle fibre dell’uno si scambiano con quelle dell’altro. In
questo modo le informazioni provenienti da entrambi gli occhi,
attraverso una sequenza di segnali elettrici, giungono in entrambi
gli emisferi, nel nucleo genicolato laterale del talamo e da qui nella
corteccia visiva primaria localizzata nel lobo occipitale (area 17 di
Brodmann ). Esistono anche un certo numero di aree corticali con
funzioni specializzate ed accade che mentre i colori sono percepiti
da una certa area della corteccia visiva, i movimenti sono acquisiti
da una area diversa sempre della corteccia visiva. Una parte delle
fibre ottiche raggiunge il mesencefalo da cui parte la via ottica
riflessa, per i movimenti riflessi del muscolo ciliare, in risposta a
stimoli luminosi. In conclusione gli stimoli visivi una volta acquisiti
dai fotorecettori della retina, sono inviati alle aree cognitive del
cervello ed elaborati per produrre la visione finale. Lesioni della
retina, del nervo ottico o della corteccia possono provocare cecità;
quando si hanno lesioni della corteccia, si ha “cecità corticale”.
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permette il passaggio dei segnali luminosi.
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numero di sei) che permettono il movimento del globo oculare.
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forma la tonaca vascolare dell’occhio (uvea).
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è una sottile membrana formata da cellule più o meno ricche di pigmenti dalla cui intensità
dipende il colore degli occhi. Ha un foro centrale
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il cui diametro è regolato dai muscoli costrittore
e dilatatore dell’iride che rispondono in modo automatico all’intensità della luce.
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sono presenti i fotorecettori, cioé cellule nervose di due tipi diversi: bastoncelli e coni͘
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nervose in uscita dai fotorecettori confluiscono al centro della retina (vicino alla fovea che è il centro di
maggior acutezza visiva) a formare il
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(Camera anteriore)
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(Camera posteriore)
Cristallino
strato
muscolare
102
Nell’uomo la vista è il senso più sviluppato e si calcola che più di
1/3 del cervello sia deputato alla visione. Infatti, oltre ad elaborare le
immagini in modo preciso ed a consentire la loro esatta collocazione
spaziale, nel processo sono anche coinvolti segnali forniti dagli
altri stimoli sensoriali ed è implicata la memoria per confrontare i
ricordi passati con le nuove immagini ricevute. L’immagine finale è
sottoposta ad un processo emozionale che può suscitare interesse o
lasciarci indifferenti. Il meccanismo attraverso il quale la corteccia
cerebrale è in grado di riunire tutte le informazioni sensoriali
(segnali elettrochimici visivi, uditivi, olfattivi, tattili), provenienti
da specifiche aree cerebrali, viene definito “binding problem”.
Geni e colori
I pigmenti dei coni che rispondono ai colori sono composti dal
retinale (aldeide derivata dalla vitamina A) e dalla proteina opsina.
Il gene per l’opsina del pigmento blu è situato sul cromosoma 7,
mentre i geni per le opsine dei pigmenti rosso e verde sono
localizzati sul cromosoma X. L’ alterazione o la perdita di questi
pigmenti comporta un mutamento nella visione dei colori (cecità
ai colori). Il gene per l’opsina del pigmento dei bastoncelli è posto
sul cromosoma 3. La mutazione di questo gene può determinare
cecità notturna e la grave retinite pigmentosa. Questa condizione
è caratterizzata dalla progressiva degenerazione dei bastoncelli e
della retina che portano a cecità. La percezione del colore negli
esseri umani è stata associata con l’attivazione di un’area occipitale
ventro-mediale. La localizzazione in quest’area è in accordo con
la collocazione delle lesioni associate ad acromatopsia ovvero la
incapacità di percepire qualsiasi colore. I soggetti affetti da questa
condizione hanno una visione monocromatica (in bianco e nero)
non essendo capaci di percepire i colori primari (rosso, verde, blu).
Esiste anche la possibilità di una visione bicromatica quando non
viene percepito uno dei tre colori primari. È il caso del ricercatore
britannico John Dalton, affetto da deuteranopia (insensibilità al
verde), che per primo descrisse questo disturbo visivo nel 1794,
che è stato perciò denominato Daltonismo.
Esso è associato ad una percezione anomala dei colori, la cui causa
più frequente è l’alterazione ereditaria dei fotorecettori – Dalton
aveva un fratello con lo stesso disturbo-.
Colori ed emozioni
Una delle caratteristiche che più colpiscono l’ attenzione nel
momento in cui ci poniamo davanti ad un’ opera d’arte è
sicuramente “il colore”. Esso ha una sua espressività ed è in grado
di determinare reazioni psicologiche nell’ osservatore che tende
ad associare i vari colori a determinati stati d’animo e sensazioni.
Il giallo, ad esempio, viene istintivamente associato alla luce del
sole, mentre il bianco e il nero rappresentano rispettivamen-
te la luce e le tenebre. Il blu è il colore del cielo e delle acque e
trasmette un senso di pace e di elevazione spirituale, mentre il
verde (colore della vegetazione), suscita nell’ osservatore una
sensazione di serenità. Usiamo spesso il linguaggio dei colori per
descrivere le nostre emozioni, dicendo che siamo “rossi” dalla
rabbia o “verdi” dall’invidia. Nel diciannovesimo secolo con
l’ Espressionismo si passa dal concetto di pittura tesa al piacere
estetico a quello di interiorità ed alla profondità dell’animo umano.
Per Van Gogh, il giallo rappresentava il colore dell’amicizia e
della gioia di vivere. Il periodo “blu” di Picasso non è solo un
periodo della sua produzione artistica ma è espressione di uno
stato depressivo vissuto dal pittore dopo la perdita del caro
amico Carlos Casagemas. Nel corso del Novecento la pittura
astratta ha ulteriormente esaltato la capacità dei colori di
suscitare emozioni. Kandinskij (1866-1944) fu il primo artista
non figurativo che cercò di associare ad ogni colore e forma una
sensazione diversa. La percezione del colore è anche in grado
di influenzare le funzioni dell’ organismo (ritmo respiratorio,
frequenza cardiaca) e il benessere psicofisico (La forza delle
immagini, 2009). Sulla base di queste osservazioni è nata la
cromoterapia, che ha modificato il modo di usare il colore nella
architettura delle strutture sanitarie, delle scuole e degli edifici
pubblici, per un impatto visivo coinvolgente e rasserenante. 103
Funzione simbolica del colore ed elaborazione delle emozioni
Al colore è assegnata una funzione simbolica che dipende dal
contesto sociale e culturale di ogni persona. Così mentre il bianco
in Occidente simboleggia la purezza ed è perciò usato per gli abiti
nuziali delle spose, in India è il colore della vedovanza mentre nelle
cerimonie nuziali viene utilizzato il rosso. Nell’ antichità il colore
degli abiti ha contribuito all’identificazione degli individui da un
punto di vista sociale, religioso e politico. Ogni colore ha per gli
esseri umani determinate caratteristiche che possono variare da
persona a persona e possono essere influenzate dall’umore. Ogni
singolo colore può quindi suscitare differenti emozioni in persone
diverse o anche nella stessa persona in momenti diversi della vita.
L’ ippocampo, insieme all’amigdala, ad altre strutture sottocorticali
ed alla circonvoluzione del cingolo, che fanno parte del sistema
limbico, giocano un ruolo importante nell’ elaborazione delle
emozioni. L’ippocampo è coinvolto nel recupero delle informazioni
di recente acquisizione ed è importante per il ricordo esplicito,
ovvero cosciente, di eventi emozionali. L’ amigdala è rilevante per
la memoria emotiva implicita e quindi non cosciente.
L’ esperienza estetica
Perchè siamo attratti dalle più disparate arti visive? Cosa proviamo
davanti ad un’ opera d’arte? Cosa succede al cervello quando
è esposto ad un’ esperienza estetica? Robert Vischer nel 1873 in
un sintetico libretto intitolato “On the optical sense of form: a
contribution to aesthetics” pone l’accento sulla relazione tra empatia
ed arte visiva. Quando veniamo a contatto con un’ opera d’arte
ci immergiamo in essa e nella sua visione: le caratteristiche che
ne emergono sono tali da suscitare sentimenti empatici nello
osservatore. L’ opera d’arte diventa lo strumento attraverso il quale
non solo entriamo in contatto con oggetti, forme, colori, ma anche
con l’artista che ha realizzato l’opera e con il suo mondo interiore.
L’ esperienza estetica diventa quindi oltre che incontro anche
esperienza interpersonale ed implica l’attivazione non solo del
sistema visivo ma anche della parte emozionale. Partecipiamo alla
104
105
visione di un’ opera d’arte con tutti i sensi e con il corpo (sinestesia).
È l’insula, l’area profonda del cervello che fa da ponte tra il nostro
provare un’ emozione, con i segnali fisiologici che il corpo ci invia
(frequenza cardiaca, atti respiratori, etc.) e ciò che sta accadendo
nel mondo esterno. La capacità del cervello di comprendere le
intenzioni e le emozioni dell’ artista viene definita “simulazione
incarnata” (Gallese e Guerra, 2015).
La sindrome di Stendhal
È una sindrome di breve durata caratterizzata da tachicardia,
capogiri, vertigini, confusione mentale ed allucinazioni che
esordiscono in modo acuto, improvviso, in soggetti che vengono a
contatto con opere d’ arte di particolare bellezza. Il soggetto
entra in una sorta di estasi contemplativa e vive una situazione
emotiva coinvolgente. Il nome della sindrome deriva dal fatto che
lo scrittore francese Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyyle
(1783-1842), ne fu personalmente colpito in un viaggio a Firenze.
Per questo motivo la sindrome viene anche denominata “sindrome
di Firenze”. Questo disturbo psicosomatico fu descritto nel 1977
dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini: la studiosa riportò
la caratteristica sintomatologia in turisti stranieri in visita ai musei
fiorentini. La sindrome colpisce per lo più soggetti di sesso maschile
fra i 25 ed i 40 anni, con un buon livello di istruzione, quando
vengono a contatto con una opera d’arte che richiama alla mente
vissuti personali di particolare significato emozionale. Lo studioso
Semir Zeki ha provato ad elaborare una teoria sulle reazioni
cerebrali e neuronali che si innescano davanti alla visione di una
opera d’arte. È possibile che nell’ esordio della sintomatologia
sia coinvolto il meccanismo neurale dei “neuroni specchio”: in
presenza di una opera d’arte arrivano al cervello numerosi input
che, attraverso un meccanismo definito “simulazione incarnata”,
possono generare nell’ osservatore, in modo inconsapevole, gli
stati d’animo che l’autore dell’ opera ha voluto trasmettere. In
alcuni soggetti queste sensazioni sono così forti da far scatenare la
sindrome.
106
R. Benelli
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L’ arte è una esperienza completa, percettiva, emotiva e personale
che agisce su più livelli: stimola le sensazioni, le emozioni ma anche
la motricità. Ciò accade, ad esempio, quando si disegna o si
modella l’argilla. L’arte è in grado di ristabilire l’autostima che
deriva dall’ aver prodotto qualcosa di bello, aiuta a ridurre l’ansia
e a migliorare l’umore. Inoltre favorisce l’apertura verso gli altri
quando è esercitata con persone. Molti degli effetti favorevoli si
osservano nei bambini e negli adolescenti.
Laboratori dedicati alle arti figurative comprendono: disegni e
pittura astratti, collage, modellazione (modelli in argilla, scultura),
fotografia, spesso associati all’ ascolto di brani musicali, esperienze
teatrali, danza. In genere sedute di un’ ora, due volte a settimana,
possono produrre effetti benefici.
Anche semplici sedute di arteterapia in cui si disegna e si colora
sono utili in quanto sono in grado di ridurre lo stress. Uno studio
pilota di Girja Kaimal et al. (2016), studiosa di arteterapia alla Drexel
University di Filadelfia, ha dimostrato che una seduta di collage,
modellazione, o disegno della durata di 45 minuti è in grado di
ridurre la concentrazione di cortisolo (ormone dello stress) nella
saliva di soggetti adulti sani.
Arteterapia: condizioni suscettibili di miglioramento
Le condizioni che possono essere suscettibili di miglioramento
con sedute di arteterapia sono rappresentate da:
-disturbi cognitivi;
-disturbi mnemonici con difficoltà a memorizzare eventi recenti;
-handicap motori e disturbi del comportamento (soprattutto nei
bambini e negli adolescenti);
-condizioni caratterizzate da bassa autostima, ansia, depressione,
stress;
-malattie neurodegenerative quali il morbo di Alzheimer;
-malattie neurovascolari (pregresso ictus)
-postumi di traumi cranici.
Percorsi di Arteterapia possono determinare un miglioramento
dello stato cognitivo, emotivo, dell’umore e delle condizioni fisiche. 107
Arteterapia nelle malattie neurodegenerative
Nei pazienti con malattie neurodegenerative si verifica spesso uno
stato di apatia e disturbi dell’umore. L’incapacità di esprimere le
proprie emozioni attraverso la parola aggrava il senso di
frustrazione di questi malati, che le pratiche del disegno e della
pittura permettono di esternare assicurando, in tal modo, momenti
di benessere. Inoltre la possibilità di esporre pubblicamente le
opere realizzate, permette di ricreare un legame con il mondo
esterno evitando la chiusura ed il ripiegamento su se stessi di questi
soggetti.
Arteterapia nei pazienti oncologici
La sensazione di piacere provata durante le sedute artistiche
appare la condizione primaria dei benefici apportati
dall’ arteterapia. Essa permette di superare, anche se
temporaneamente, la sofferenza psicofisica derivata dalla
neoplasia. Inoltre le attivita artistiche attivano il circuito della
ricompensa nel sistema nervoso centrale e possono indurre il
rilascio di endorfine e quindi di antidolorifici naturali.
L’ arteterapia determina anche un aumento dell’autostima con
diminuzione dell’ansia. Ciò accade soprattutto quando il paziente
riesce a riprodurre una tecnica o a produrre qualcosa di bello e
focalizza la sua attenzione sull’ opera eseguita che è in grado di
stimolare sensazioni piacevoli e positive.
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“Ciò che non si può dire
e ciò che non si può tacere,
la musica lo esprime”
Victor Hugo
Gli effetti che la musica produce sulla nostra psiche e sul nostro
organismo sono ancora poco conosciuti. Risulta quindi importante
tentare di capire come essa possa influenzare la mente, l’umore,
le emozioni, l’animo umano ed incidere sul benessere personale,
abbandonando tuttavia ogni tentativo di razionalizzare il
fenomeno.
“La musica può donare delle ali ai vostri pensieri e illuminare la vostra
anima di una luce eterna” (Platone) (da: Montinaro, 2019).
Il primo contatto con la musica cantata o suonata, qualora inizi
in età molto giovane, quando la plasticità cerebrale è più intensa,
è in grado di modificare la struttura e l’attività di aree cerebrali
che sono coinvolte nell’acquisizione ed elaborazione degli stimoli
sonori. Un costante training musicale è in grado di indurre, sia
nel cervello in via di sviluppo sia in quello degli adulti, un processo
di natura analogica che favorisce la plasticità cerebrale. In questo
la musica si distingue dall’esercizio della parola, della scrittura o
delle immagini visive che necessitano di un processo analitico e di
scomposizione degli stimoli: la musica, no!
Percezione acustica, ricezione musicale e localizzazione cerebrale
delle funzioni musicali
La percezione acustica si manifesta grazie ai suoni generati dalle
vibrazioni prodotte dal mondo che ci circonda. Le onde sonore
vengono convogliate dall’orecchio esterno all’ orecchio medio il cui
confine è rappresentato dalla membrana del timpano. Essa entra in
vibrazione in risposta ai suoni. L’ orecchio medio è costituito da tre
ossicini (martello, incudine e staffa) che amplificano la pressione
dei suoni e li trasmettono nell’ orecchio interno alla coclea. Questa
struttura, fatta a spirale, è suddivisa in tre canali paralleli separati
da membrane ed è riempita da un liquido acquoso che si muove
al passaggio delle onde sonore. Nella coclea è contenuto l’organo
di Corti. Esso si estende sulla parete superiore della membrana
basilare che è formata da neuroni specializzati (cellule ciliari):
essi vengono attivati dalla pressione dei suoni (segnali meccanici)
e producono segnali nervosi (biolettrici). Nella membrana basilare
vi sono poi i dendriti delle fibre del nervo uditivo e cellule di
supporto. La coclea svolge la funzione fondamentale di analisi del
suono in frequenza. I suoni ad alta frequenza sono percepiti dalle
cellule poste alla sua base mentre i suoni a bassa frequenza attivano
le cellule poste al suo apice. I segnali nervosi (bioelettrici) vengono
trasmessi dalla coclea al tronco encefalico mediante il nervo
acustico (VIII nervo cranico) e passano alle stazioni subcorticali.
La corteccia uditiva primaria è localizzata nei lobi temporali del
cervello. Le aree primarie e secondarie sono connesse con quasi
tutto l’ encefalo ed ogni emisfero cerebrale è collegato in modo
preferenziale con l’orecchio controlaterale. Le moderne tecniche di
neuroimmagine fanno supporre l’esistenza di percorsi separati per
l’analisi della musica e del linguaggio. Da quanto detto risulta che la
ricezione musicale si articola in tre distinti livelli: a) ricezione dello
stimolo uditivo; b) analisi strutturale delle componenti elementari
dei suoni (altezza, intensità, ritmo, durata e timbro) e della parte
elaborata del brano musicale (tema, tempo); c) identificazione
111
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Nervo
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di ciò che si ascolta. La corteccia pre-frontale mediale rappresenta
il centro in cui sono sono integrati i ricordi autobiografici ed, in
particolare, sono immagazzinati i brani musicali risalenti al passato
(Montinaro, 2019).
L’ orecchio assoluto
L’ orecchio assoluto è la capacità di un individuo di identificare
l’altezza di una nota senza l’aiuto di un suono di riferimento quale
quello generato dal diapason. È questo lo strumento regolato a
432 Hz su cui si accordano i musicisti prima di iniziare a suonare.
Per lo sviluppo dell’orecchio assoluto, più frequente nei musicisti,
sembra necessario un training musicale iniziato in giovane età e la
predisposizione genetica (Montinaro, 2017).
Effetti della musica sul cervello umano
Quando ascoltiamo un brano musicale si attivano i due emisferi
cerebrali: il sinistro (la parte più razionale), si concentra sul
linguaggio, mentre il destro (la parte più creativa e istintiva) sulla
parte musicale e si creano interconnessioni fra i due emisferi. La
musica è in grado di stimolare il rilascio di neurotrasmettitori
quali la dopamina, la serotonina e la norepinefrina. Gli stimoli
sonori attivano il sistema limbico e le emozioni suscitate da un
brano musicale producono effetti simili a quelli indotti da una
sostanza psicoattiva. La dopamina agisce sul piacere, sulla capacità
di attenzione e di apprendimento, interviene sul movimento e sui
meccanismi del sonno. Gli effetti prodotti non riguardano solo
le emozioni ma sono in grado di influenzare anche il sistema
cardiovascolare, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la
attività respiratoria. Soprattutto la musica classica è in grado di
attivare il sistema nervoso parasimpatico. Il rilascio di dopamina
risulta comunque maggiore quando si ascolta il genere musicale
preferito. Viene favorito anche il rilascio di endorfine responsabili
di uno stato di calma e benessere. Quando la musica è associata
ad immagini video risulta una maggiore attivazione dell’amigdala
(centro delle emozioni). Nei momenti di massimo piacere prevale
l’ attivazione delle cellule del nucleo accumbens.
Musica ed autostima
La musica ha un forte impatto sull’autostima, veicola emozioni,
per questo motivo è legata al mondo emotivo. Essa invia messaggi
positivi che possono influenzare e migliorare l’umore e contribuire
ad una visione ottimista della vita. Le funzioni a cui l’ascolto della
musica assolve sono di tre tipi: a) contenitiva: quando ascoltiamo
un brano musicale che conosciamo vengono rievocati vissuti
anche molto lontani nel tempo; b) rievocativa: il brano musicale
stimola ricordi che sono associati ad un precedente ascolto; c)
evasiva: la musica è in grado di astrarci da ciò che ci circonda e
ci permette di “sognare ad occhi aperti”. È questa la funzione più
conosciuta. Queste funzioni sottendono uno dei ruoli principali
della musica che è quello di suscitare emozioni che possono
manifestarsi già con le prime note di un brano musicale. È sempre
il sistema limbico con la sua parte più profonda “l’ amigdala”,
sentinella delle emozioni, a produrre una reazione agli stimoli
sonori che ci raggiungono.
Il cervello è in grado di catalogare la musica
Il cervello cataloga la musica in base a due elementi principali: il
ritmo e le note. Il ritmo è ripartito in battute che si ripetono un
determinato numero di volte in un dato tempo. Considerando che
la frequenza cardiaca normale varia tra 60 ed 80 battiti al minuto,
ne consegue che un tempo con un ritmo inferiore avrà un effetto
rilassante, mentre al di sopra attivante fino a diventare eccitante
come accade per la “electronic dance music”. È questa la musica da
discoteca che stimola anche i movimenti del corpo.
Musica ed Emozioni.
Una ricerca condotta dall’Università di Berkeley (California – USA)
ha mappato le risposte emotive di oltre 2.500 persone, di nazionalità
americana e cinese di età e cultura diverse, all’ascolto di migliaia di
canzoni dei generi più disparati: rock, folk, jazz, musica classica,
commerciale, sperimentale, fino all’heavy metal. L’ esperienza
dell’ascolto dei diversi generi musicali è stata in grado di suscitare
tredici differenti stati emozionali. Dallo studio è emerso che 113
tutte le persone che hanno partecipato all’esperimento, anche se di
cultura diversa, si sono trovate d’accordo nell’identificare emozioni
simili (energia, gioia, rilassamento, oppure fastidio, ansia, paura,
etc.), quando rimanevano all’ascolto dello stesso brano musicale.
I risultati di questo studio hanno permesso di allestire una playlist
di brani musicali di genere diverso che elicitano determinate
emozioni da impiegare nelle condizioni psicofisiche più disparate.
Un “confermative experiment” ha escluso possibili influenze
culturali sulle risposte emotive (Balestrieri, 2021).
Gli elementi della comunicazione musicale emotiva
Tre sono gli elementi della comunicazione musicale emotiva:
il compositore, l’ esecutore e l’ ascoltatore. Il compositore trasferisce
le proprie emozioni nei brani musicali frutto della sua arte.
L’ esecutore veicola il messaggio musicale all’ascoltatore,
riproducendolo fedelmente o interpretandolo in base alla sua
esperienza e sensibilità. Alcuni soggetti esprimono meglio le
proprie emozioni e tutta la gamma dei sentimenti e dell’ esperienza
umana attraverso la musica più che con simboli verbali. Attraverso
un sistema di “neuroni specchio” gli ascoltatori sono in grado
di percepire le emozioni che vengono trasmesse durante una
esecuzione musicale.
Musica e differenze culturali
Differenze culturali e tipo di musica hanno rilevanza sulle emozioni
suscitate da un brano musicale. Se è indubbio il valore universale
della musica, il nostro rapporto con essa è influenzato dai gusti
personali, dalla rappresentazione che abbiamo del mondo e dalla
nostra personalità e cultura. Le musiche che preferiamo sono il
mezzo attraverso il quale possiamo manifestare qualcosa di noi,
della nostra vita, delle esperienze vissute e del contesto sociale
in cui viviamo. Musicologia e psicologia si sono interessante ai
meccanismi che vengono coinvolti nello sviluppo delle preferenze
musicali personali. Da uno studio pubblicato dall’Università di
Cambridge si evince come fattori caratteriali e psicologici sono
in grado di influenzare le scelte musicali. Gli stili di pensiero delle
114
115
persone che hanno partecipato allo studio sono stati suddivisi in
tre categorie: a) empatici: soggetti che riescono a comprendere
gli stati emotivi altrui e reagiscono con la giusta emozione; b)
sistematici: soggetti che hanno comportamenti razionali e si
interessano ai modelli, alle regole ed ai sistemi che governano
il mondo; c) equilibrati: soggetti che occupano una posizione
intermedia fra le due precedenti categorie. Dallo studio emerge
che personalità con tratti empatici preferiscono generi melodiosi,
malinconici e con un’ emotività profonda. Nella categoria dei
sistematici rientrano persone che prediligono un genere musicale
più intenso e complesso (hard rock, punk, heavy metal). Gli
equilibrati infine preferiscono la musica più varia. Da un ulteriore
studio degli stessi autori, che correla gusti musicali e personalità, è
emerso che persone con una maggiore apertura mentale, creativi
e disponibili alle novità, danno la preferenza alla musica jazz e
alla musica classica. Le persone estroverse preferiscono ascoltare
musica popolare. Ed ancora i romantici ed i soggetti che cercano
momenti di relax prediligono la musica pop-rock, soul e R&B.
Infine la musica punk, heavy metal, rock è preferita dai soggetti che
assumono un atteggiamento di sfida nei confronti dell’ambiente in
cui vivono che spesso ritengono ostile (Balestrieri, 2021).
Musica nelle differenti età della vita
La musica accompagna tutta la nostra vita caratterizzando i
momenti più importanti e si associa ai fugaci ricordi ed alle
emozioni che ci legano ad essi. Il “linguaggio emozionale” ha
un valore universale e non sottostà a regole razionali. Anche se
i primi anni di vita sono i più importanti per l’acquisizione del
linguaggio musicale è però l’ adolescenza il periodo della vita in
cui si costruisce la personalità in modo stabile e le esperienze
vissute diventano memorie rilevanti. I collegamenti neurali che
si formano determinano una traccia mnemonica che si carica di
emozioni amplificate grazie all’effetto esercitato dall’ormone della
crescita. I brani musicali preferiti stimolano le aree del cervello
che regolano il piacere e rilasciano dopamina. Comporre musica,
suonare uno strumento, cantare, ascoltare sono tutte attività che
pur influenzando l’ organismo in modi diversi, allenano il cervello
migliorando le funzioni cognitive, comunicative e la positività:
“Ascoltare, ma soprattutto, fare musica, è l’attività perfetta per i
più piccoli” (Montinaro A., 2019). La musica aiuta a rilassarci, ad
astrarci da ciò che ci circonda, ad abbassare il livello di guardia
e offre l’ occasione di fermarci a riflettere. Inoltre la musica è
socialità e convivialità. La musica strumentale può essere utile agli
studenti quando usata come sottofondo per ridurre l’ansia e favorire
la concentrazione. L’ ascolto della musica con il passare degli anni
dà luogo ad una risposta di tipo estetico ed una risposta emotiva.
Anche se la musica preferita può essere quella capace di indurre
un forte impatto emotivo, esiste anche la possibilità che venga
preferita per ciò che essa rappresenta nella memoria personale ed
autobiografica. Nei soggetti anziani la musica aiuta a riempire il
vuoto esistenziale, riduce lo stress, aumenta il rilassamento, valorizza
la memoria, favorisce la meditazione, incoraggia o fa da supporto
all’esercizio fisico. Nei soggetti con malattie neurodegenerative può
esercitare un effetto terapeutico. La pratica musicale, come hobby
o sotto forma di musicoterapia, costituisce uno strumento idoneo
a rinforzare la cosiddetta “riserva cognitiva”, ovvero quel bagaglio
di funzione cerebrale che in età senile contrasta lo sviluppo della
demenza (Proverbio, 2019). Gli attuali mezzi multimediali oggi
a disposizione, quali “Alexa”, consentono di accedere a playlist
di musiche di qualsiasi genere con un semplice comando vocale.
I nuovi media ed i sistemi esperti del futuro riusciranno sempre
più ad interfacciarsi con la persona ed a creare mix di musica e
di immagini familiari e/o rilassanti che rievocano o inducono
momenti di felicità per il benessere psichico e fisico.
Musica classica e/o meditativa e musica ritmata
La musica classica e meditativa aiuta a ridurre lo stress e il dolore
mentre la musica ritmata è in grado di migliorare l’umore e le
motivazioni. La musica di Mozart, in particolare, racchiude in sÈ
tutti gli stati d’animo che un essere umano è in grado di provare.
116
117
Per questo motivo può essere considerata unica e universale
come sostiene il neuropsicologo e musicista francese E. Bernard
Lechevalier nel suo libro “Le cerveau de Mozart” (2003). Nel 1991
l’ otorinolaringoiatra francese Alfred Tomatis (1920-2001), noto
studioso di audiologia, nel suo libro “Pourquoi Mozart?” sostiene
che “Mozart è un’ ottima madre, provoca il maggior effetto curativo
sul corpo umano”. È questo l’effetto Mozart! “La sua è una musica
pensata e scritta per tutti, che possa essere compresa e amata da
chiunque abbia conservato la capacità di ascoltare, non solo di udire”
come riporta il neurochirurgo Antonio Montinaro. Ed ancora:
“I suoi pentagrammi sono diventati la chiave universale per
accedere agevolmente nei meandri della mente umana e attingere
ai poteri curativi della musica”. Un elemento importante della
musica di Mozart è l’impiego dell’accordatura a 432 Hz che può
esercitare attività terapeutica in quanto sintonizzata con le
frequenze fondamentali del corpo umano (frequenza cardiaca,
sincronizzazione cerebrale, replicazione del DNA). L’ ascolto di
un concerto di Mozart incrementa la produzione di dopamina,
favorisce l’apprendimento e la memoria (Montinaro, 2019).
La Musica religiosa: il canto Gregoriano
L’impiego della musica in ambito religioso rappresenta un mezzo
di spiritualità e di meditazione che permette all’uomo di elevarsi al
trascendente. Il canto Gregoriano è un esempio di canto liturgico
monodico, e quindi ad una sola voce, della tradizione religiosa
benedettina. Esso esorta a concentrarsi ed a cantare con ardore la
lode a Dio che non può essere espressa in maniera adeguata con le
sole parole e diviene fonte inesauribile di appagamento spirituale.
Il canto gregoriano viene normalmente cantato a cappella da un
coro di voci bianche o da un solista chiamato ‘cantore’ e quindi
senza accompagnamento strumentale. È un canto che utilizzando
un ritmo simile a quello del respiro favorisce il rilassamento, la
meditazione, la interiorizzazione e l’energia spirituale ed ha effetti
caratterizzati da rallentamento della frequenza cardiaca e della
frequenza del respiro.
118
La Musica come mezzo per migliorare le prestazioni fisiche e
l’ attività lavorativa
La musica rappresenta un utile strumento per migliorare le
proprie prestazioni fisiche e lavorative e mantenere alti i livelli
di energia e concentrazione. Il cardiologo Waseem Shami della
Texas Tech University, ad esempio, ha dimostrato che ascoltare
musica durante un allenamento sportivo consente di migliorare
le proprie prestazioni. Questo accade perchè concentrarsi su un
brano musicale riduce la sensazione di fatica ed i passi tendono
ad armonizzarsi con il ritmo della musica.
La musica esercita effetti favorevoli anche quando è utilizzata
sul lavoro potendo aumentare il benessere dei lavoratori e la
produttività. Nella professione sanitaria è interessante osservare
come la musica coinvolge sia gli operatori sanitari che i pazienti.
In sala operatoria, ad esempio, è provato come la musica
favorisca l’ esecuzione tecnica di un intervento chirurgico o
endoscopico in quanto aumenta la concentrazione e l’attenzione
degli operatori: le procedure diventano più veloci e precise e si
riducono le possibilità di errori soprattutto quando le manovre
sono ripetitive o particolarmente complesse. Il paziente invece
riferisce di sentirsi più a suo agio e di trovarsi in un ambiente più
familiare; manifesta una riduzione dell’ansia e del dolore, una
riduzione dello stress che può richiedere una dose inferiore di
sedativi ed anestetici quando l’intervento è eseguito in anestesia
locale. Per la selezione dei brani da utilizzare in sala operatoria,
pur rispecchiando le preferenze degli operatori, la scelta ricade
frequentemente su brani di musica del ‘700 (Vivaldi, Bach,
Mozart, etc.) e sempre su musica suonata, ma non cantata. Questa
è anche l’esperienza maturata nell’U.O. di Urologia dell’Ospedale
di Prato dal 1997 al 2007, dimostrando la possibilità di eseguire
interventi endoscopici quali il trattamento laser della iperplasia
prostatica benigna in anestesia locale in soggetti anziani con
rischio anestesiologico.
PRATO. Nel reparto di Urologia dell’ospedale di Prato, il dottor Roberto Benelli è l’unico
chirurgo italiano che taglia e cuce la prostata “in eccesso”, con la “sua” musica come sottofondo
in sala operatoria. E così, invece che emigrare all’estero per farsi operare, a Prato arrivano
anche da fuori regione, magari con la scusa della musica, ma in realtà perché possono tornare
a casa il giorno dopo. Dal primo di gennaio sono già una novantina i pazienti di ipertrofia
prostatica benigna, che hanno avuto modo di ascoltare la musica “d’ ambiente”, scritta e incisa
da Roberto Benelli, la stessa persona che, indossando il camice in camera operatoria, eliminava
con il laser, ultimo modello, la patologia ostruttiva causa di tanta sofferenza.
«La musica non mi distrae assolutamente, anzi riesce a coinvolgermi al meglio per arrivare
alla massima concentrazione» spiega il dottor Benelli, 61 anni pratese doc, direttore dell’UO di
Urologia di Prato. Riccardo Tempestini – 02 agosto 2006.
Ascoltare e/o comporre musica nelle esperienze della vita
In presenza di esperienze negative le persone sono motivate
ad ascoltare musica triste, al fine di superare l’evento o per
incanalare le proprie emozioni. Da uno studio recente emerge
che la musica esercita una funzione auto-regolatoria (Van den Tol
Edwards, 2011). La scelta di un brano triste in momenti tristi, può
rappresentare una valida strategia di coping con cui le persone
reagiscono a situazioni avverse, eventi spiacevoli o stressanti.
L’ ascolto di un brano musicale triste può favorire l’accettazione,
favorire una richiesta di aiuto, o avere una funzione empatizzante,
in particolare per gli adolescenti, i quali utilizzano spesso la
musica preferita per migliorare il proprio umore.
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“Il chirurgo-compositore”
Numerosi studi hanno messo in luce una correlazione positiva
tra l’ascolto di musica triste e l’aumento del tono dell’umore. Dopo
un evento negativo è possibile ricorrere a brani musicali con alto
valore estetico allo scopo di migliorare lo stato emotivo. La musica
assumerebbe una funzione “catartica”, come se le persone volessero
vivere in maniera ancora più profonda la loro tristezza, per poi
sentirsi sollevati e “riemergere” da uno stato d’animo negativo.
Brani musicali sono spesso composti in momenti di gioia e felicità,
di turbamento, di ansia, di stress, di tristezza e malinconia, o
addirittura di dolore profondo. Nel primo caso rappresentano la
esteriorizzazione della gioia interiore che si prova al superamento
di una prova importante o anche al primo incontro con la persona
amata. Nel secondo caso permettono di superare stati di intensa
commozione che si manifestano in particolari momenti della
vita. Un esempio è offerto dall’esperienza di una grande perdita
quale quella della madre dopo mesi di sofferenza per una malattia
inguaribile. Esprimere in musica le parole pronunciate con gli ultimi
respiri della persona cara sono di grande conforto e mantengono
viva la presenza materna. In conclusione ascoltare e/o comporre
musica assume un vero e proprio valore terapeutico e rappresenta
un valido strumento di sostegno per coloro che vivono esperienze
emotivamente negative.
La Musica come presidio terapeutico
Nell’ambito delle neuroscienze la musica svolge un ruolo utile
come presidio terapeutico. Già Peter Lichtenthal, medico austriaco
compositore e arrangiatore musicale, agli inizi dell’ ‘800 nel suo
trattato sull’influenza della musica sul corpo umano sosteneva
l’importanza dell’arte musicale nella cura di alcune malattie.
La musicoterapia influisce sulle funzioni cerebrali e sul
comportamento umano riducendo l’ansia, lo stress, la pressione
arteriosa, i sintomi della depressione, nonchè migliorando la
memoria, le funzioni cognitive e motorie, l’apprendimento spazio-
temporale e la neurogenesi, cioè la capacità del cervello di produrre
neuroni. Sono noti i corsi del neuroscienziato Kiminobu Sugaya
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Mater, 15 Giugno 2004
(per la morte della madre)
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e del violinista di fama mondiale Ayako Yonetani su “Music and
the Brain” al Burnett Honors College dell’Università Centrale della
Florida (Figure pag.123). Gli studiosi riportano come pazienti
affetti da malattie neurodegenerative quali il morbo di Alzheimer
e il morbo di Parkinson, non in fase avanzata, rispondono
positivamente alla musica ed in particolare alla loro musica
preferita. Tutto ciò può essere verificato utilizzando la risonanza
magnetica funzionale che mette in evidenza come molte parti
del cervello si illuminano con la musica. Cantare, suonare uno
strumento, ballare e comporre musica in genere possono migliorare
le condizioni psico-fisiche dei malati di Alzheimer nei quali si
assiste anche alla riduzione dell’agitazione, al miglioramento
del tono dell’umore, del comportamento e della socializzazione.
“L’intervento musicale, con la sua influenza sui livelli non verbali
della comunicazione e il carattere evocativo e di riattivazione
della memoria rappresenta uno strumento ideale di intervento nei
malati con gravi deficit cognitivi” (Montinaro, 2019). Il riascolto
individuale di suoni e musiche familiari che ricordano eventi
passati può stimolare la memoria dei pazienti con Alzheimer o con
demenza senile. I ricordi musicali infatti sono spesso preservati
dalla malattia perchè le aree chiave legate alla memoria musicale
non vengono generalmente danneggiate. Dall’ascolto individuale
si può passare in un tempo successivo alla musicoterapia di gruppo
per un maggior coinvolgimento. Nel morbo di Parkinson è stato
osservato come la musica ritmica interrompe temporaneamente
la sintomatologia tanto che è stata utilizzata per aiutare i malati ad
alzarsi, abbassarsi ed a camminare; gli effetti sono però transitori.
La musicoterapia associata alla camminata sul tappeto ruotante
può migliorare l’equilibrio ed il tono muscolare. Numerosi studi
hanno dimostrato risultati favorevoli della musicoterapia associata
alla danza. Suoni e danza possono contribuire al mantenimento
dell’attività motoria, migliorano il tono dell’umore ed esercitano
attività antidepressiva. Buoni risultati della musicoterapia sono
stati osservati anche nella epilessia farmacoresistente.
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“Your Brain on Music” (Sugaya e Yonetani)
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Il cervello umano e il sistema nervoso sono programmati per distinguere la musica dal
rumore. Sono in grado di rispondere al ritmo, alla ripetizione dei suoni, ai toni, alle
melodie. Gli studi che utilizzano la risonanza magnetica e la tomografia a emissione di
positroni (PET) permettono di comprendere quali reti nervose hanno la responsabilità
primaria nella decodifica e interpretazione degli effetti musicali. Con la Risonanza
Magnetica parti diverse del cervello “si illuminano” con la musica.
124
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da: Sugaya e Yonetani: “Your Brain on Music”.
In: Pegasus: The Magazine of the University of Central Florida.
125
Nei bambini affetti da encefalopatia epilettica resistente al
trattamento farmacologico l’ascolto di musiche di Mozart per due
ore al giorno per quindici giorni ha ridotto il numero di crisi
convulsive “da notare che la maggior parte delle epilessie originano
dal lobo temporale e cioè dalla stessa sede in cui viene elaborata la
musica a livello cerebrale” (Montinaro, 2019).
Numerosi studi sono stati compiuti su pazienti oncologici.
Determinate musiche, un intenso contatto con la natura, unite alla
preghiera sono in grado di indurre uno stato di rilassamento e di
pace. Pensieri positivi e di felicità probabilmente attivano il sistema
dell’ossitocina e quindi il sistema di calma e connessione. In pazienti
con malattia avanzata è stato utilizzato un approccio integrato di
musicoterapia, psicoterapia ed assistenza spirituale che inducono
serenità e speranza negli ultimi momenti della vita (Bradt et al.,
2016).
Modalità con cui la musicoterapia può essere integrata nelle cure
La musica, quando è integrata nella cura del malato, può essere
ricettiva passiva (semplice ascolto di brani musicali che si adattano
al caso clinico) o attiva. In questo caso è guidata da un terapista
esperto. Gli effetti più benefici della musicoterapia presuppongono
comunque la partecipazione diretta del paziente alla produzione
musicale.
Musica e Sonno
La musica a basso volume trasmessa durante le fasi di sonno
profondo è in grado di migliorare le capacità di memorizzazione
del cervello. Anche il consolidamento della memoria si realizza
attraverso le onde cerebrali lente che caratterizzano il sonno
profondo: esse sono fondamentali per il funzionamento neuronale
(Montinaro, 2019).
Musicoterapia, Psicoterapia, terapia vascolare BEMER®
Recenti ricerche sulla associazione di musicoterapia e psicoterapia
forniscono risultati promettenti nei pazienti con sindrome
depressiva in cui si ottiene un aumento del tono dell’ umore
superiore a quello prodotto dalla terapia standard (Maratos
et al., 2009). L’ associazione musicoterapia-terapia vascolare
BEMER® (Bio-Electro-Magnetic-Energy-Regulation) con sedute
di psicoterapia determinano un miglioramento psicofisico nelle
affezioni caratterizzate da deficit di ossigenazione tissutale. La terapia
BEMER® è un trattamento fisico di induzione elettromagnetica
pulsata a bassa frequenza ed a bassa energia generata da un
materassino, dotato di bobine elettromagnetiche integrate, su cui
si sdraia il paziente. Il trattamento migliora la perfusione ematica
con stimoli vasomotori sulla rete capillare e determina una
maggiore ossigenazione tissutale particolarmente utile nei soggetti
affetti da malattie metaboliche quali il diabete, malattie circolatorie
e neurodegenerative (Giacchè e Capecchi, 2020).
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